Quando ne Il cavallo di Torino (2011) la luce tremolante della lampada ad olio del
finale inizia ad affievolirsi sempre di più fino a morire nel quadro
nero della Fine, il cinema constata l’addio di un suo esponente che
nei trent’anni precedenti ne ha scritto la storia, e noi
spettatori, orfani inconsolabili, viviamo da quel momento la
consapevolezza che non ci sarà mai nient’altro che porterà
in calce la sigla B.T. [1]. Ma appena ritiratosi Tarr decise di
intraprendere un’altra strada mettendo a disposizione la sua
esperienza per i giovani virgulti autoriali di tutto il mondo, così
nel 2012 fondò a Sarajevo un’accademia denominata film.factory che
si costituiva, dopo una selezione alla quale andava aggiunta una
retta che pare fosse di 19.000 $, in un percorso triennale dove gli
studenti, oltre alle normali lezioni in aula, potevano entrare in
contatto con registi ed esperti del settore durante workshop
organizzati dalla scuola, in quegli anni passò dalla film.factory
gente come Pedro Costa, Carlos Reygadas, Enrico Ghezzi, Guy Maddin e
James Benning. Insomma, laggiù non deve essere mancato un certo fermento
culturale che indubbiamente avrà aiutato i discenti nel loro
compito, e sì perché durante i primi due anni di corso l’obiettivo
era quello di girare quattro cortometraggi per dedicare l’ultimo
anno al lungometraggio di debutto. Poi, sul finire del 2016, Tarr ha
annunciato il suo abbandono dall’accademia e credo che molte cose
siano cambiate, ma non siamo qui per parlare di questo...
Bensì di Tuga
(2014) diretto dal messicano Sergio Flores Thorija, e sebbene non
abbia trovato conferme si tratta plausibilmente di un corto che fece
da credito nel corso universitario svolto sotto l’egida di Tarr,
qui nelle vesti di produttore. Va subito detto che ci rapportiamo con
un lavoro scolastico su cui è arduo estrapolare un’esegesi che non
sia il banale svolgimento dei fatti sullo schermo: abbiamo un
dottorino ispanico che giunge in un paese sperduto da qualche parte
nei balcani accolto da una sua coetanea che gli farà
da infermiera, la popolazione si riduce a vecchie intente a tagliare la
legna, a pecore e a bambini silenziosi, in più il cellulare non
prende. Il dettaglio del telefonino senza campo potrebbe essere
l’unico appiglio capace di fornire un briciolo di profondità, il dottore
sembrerebbe infatti legato a qualcosa che ha lasciato indietro (tale aspetto
è sottolineato nella sinossi ufficiale) e che pare lo
tormenti alquanto. Non avendo uno sviluppo degno di nota Tuga
si adagia sui binari della linearità ammantandosi di un torpore che
non può che recare insoddisfazione, la risoluzione di una
accettazione della propria condizione personale/professionale da
parte del dottore lascia indifferenti, ed anche sul piano estetico,
se togliamo un campo lunghissimo col ragazzo che sparisce verso una
collina (citazione di A torinói ló?)
e delle tempistiche più dilatate rispetto all’ordinario, siamo
nella medietà assoluta. Per Sergio Flores Thorija mi
sento di asserire che, stando al 2014, ci siano ancora tanti libri da sfogliare e
tanti film da vedere prima che possa considerarsi un Autore.
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[1] Vabbè, Muhamed
(2017) non lo contiamo dài.
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