martedì 30 ottobre 2012

Amour

Amour si genera direttamente dall’ultima inquadratura de Il nastro bianco: la platea costituita dagli abitanti di un villaggio tedesco per la Palma del ’09, la platea di un teatro che ascolta un concerto per quella del ’12. In ambo i casi il gruppo di umanità sullo schermo ci e si guarda, perché l’atto del vedere, d’altronde architrave per eccellenza del cinema, è tratto connotante anche di quello hanekiano il quale da sempre gioca con la materia di cui si occupa e con chi ne usufruisce, quindi mostrando(ci) il pubblico che si accomoda sulle poltroncine rosse il regista nato a Monaco di Baviera apre un sipario fuori dalla diegesi che suggerisce le coordinate della sua opera: sono due persone della folla i protagonisti, indistinguibili, mimetizzati nel mucchio, due persone come tutti, come noi; Haneke dice: guardate la rappresentazione di una realtà che appartiene all’Uomo, guardate il collante e/o la cesoia che dà e toglie, guardate sulla locandina, in quel perfetto campo-controcampo, due persone che si guardano, semplicemente: con quella sala che pian piano si riempie sedetevi e guardatevi allo specchio.

Mai interessato ad imboccare la pulsione scopica dello spettatore, Haneke ha sempre preferito stimolare l’occhio-cervello invece dell’occhio-occhio operando molto spesso fuori dal quadro, scolpendo nell’immaginario drammi di una potenza distruttiva senza il bisogno di esibirli sfacciatamente, apparendo col suo cinema artico, lontano, isolato nel proprio nucleo di osservatore; anche in Amour i tempi si plasmano nell’ellissi, Haneke preferisce infilarsi nelle grinze del quotidiano piuttosto che puntare sulla centralità dei fatti salienti: la malattia di Anne non presenta spiegazioni di raccordo tra uno stadio e l’altro, il crollo inarrestabile è proposto nello spazio invisibile di un cambio scena o nei dialoghi che Georges avrà con i suoi interlocutori. È un bel paradosso, proprio un film come questo che invita velatamente ad un’ispezione visiva/emotiva/intima di un’età raggiunta o raggiungibile da chi assiste, procede in larga parte evitando di soffermarsi sui nessi (nessuna diagnosi proferita dalla bocca di un medico) e occultando quasi tutto ciò che è l’Altro gravitante intorno alla coppia. Se non esistono delucidazioni precise sul male, non esistono nemmeno figure esterne capaci di portare un qualsiasi sollievo (anche la figlia e l’infermiera mostrano l’inadeguatezza dei propri ruoli), l’emarginazione diventa totale, il panorama visceralmente personale, eppure il tête-à-tête tra Georges e Anne, tra Lui e Lei, sa essere molto di più che il capolinea esistenziale di un’insegnante di piano e del proprio marito perché dà voce all’universalità del Dolore, all’Accanimento della Malattia (una paralisi per una pianista, cosa può esserci di peggiore?), all’Umiliazione, alla Rassegnazione, all’Abbandono. E a quella forza tremenda, in ogni senso, che è l’Amore.

Tralasciando l’eloquenza del tema tipicamente hanekiano che riguarda l’ennesimo blitz all’interno del ceto sociale medio-alto, chi scrive vuole suggerire un’apertura al simbolo da parte dell’autore, ciò deriva da un’interpretazione del tutto soggettiva per cui prendetela con le pinze: il punto è… l’acqua, alcune delle scene fondamentali della pellicola rivelano la sua cruciale presenza: nella prima amnesia di Anne tutto ruota intorno alla chiusura di un rubinetto, successivamente vediamo la donna stesa vicino alla finestra (voleva buttarsi giù?) mentre fuori diluvia, nell’inquietante parentesi onirica Trintignant giunge in un pianerottolo del palazzo completamente allagato, infine sempre Georges reagisce in modo violento (e ciò può fungere da campanello d’allarme) al rifiuto della moglie ormai moribonda di bere un sorso d’acqua. Vista l’intransigenza di Haneke nell’attenersi al suo stile asciuttissimo anche solo avvertire la presenza di variabili “metaforiche” (l’acqua = sorgente Vitale vs. Morte?)  rappresenta una discreta novità (forse il finale de La pianista [2001] è l’unico caso di slancio oltre la cronaca dei fatti); ad ogni modo vi sono constatazioni meno azzardate in questo campo, mi riferisco alla presenza del piccione (tra l’altro il disegno di un volatile campeggia anche nel soggiorno di casa) e all’importanza scenica che gli si dà (magari per caricarlo come elemento libero o esterno), senza dimenticare i due belli e dolenti strappi surreali in cui Anne si mostra agli occhi di Georges come se non fosse successo niente.

I segni evidenti di una continuità registica sono quanto di meglio si possa rintracciare in un film al pari di nuovi possibili spiragli, se poi è Michael Haneke a portare avanti questo discorso non si può che uscirne con un’opinione fortificata nei suoi confronti perché il cinema che fa, mai supponente e men che meno speculatore nell’imbastire tragedie umane, è uno dei migliori in circolazione nel raccontare di noi, della nostra vita, della nostra morte, e ora anche del nostro amore.

16 commenti:

  1. Sarà banale ma è detto tutto nel titolo: film semplicemente da vivere...

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  2. non ancora visto..rimedierò..ciao amico

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  3. son tanto curioso.. Haneke di solito non delude.. vedremo

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  4. acqua vita e minaccia, interessante, davvero un gran film, intanto ti ho citato nel mio post sul film

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  5. Ti prego, davvero, ti prego di spiegarmi cosa vuoi intendere con la proposizione, secondo la quale, i tempi si plasmano nell'ellissi.
    Saluti, Jean Claude.

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  6. ci provo (davvero, eh): ho fatto riferimento ad un andamento ellittico perché ho avvertito che durante il dispiegarsi della storia Haneke abbia spalmato la narrazione su un arco di tempo che copre chessò, un tot di mesi, tuttavia la percezione che si ha è che gli eventi siano invece a stretto contatto tra loro, non trovo sia così e ciò viene "misurato" dall'aggravarsi della malattia di Anne il cui decadimento è illustrato attraverso stadi a compartimenti stagni, la scena prima è malconcia ma ancora in piedi, quella dopo è semiparalizzata in un letto. Passa del tempo tra un grado di degenerazione e l'altro, tempo che non ci viene mostrato. Anche il finale con la Huppert che entra nella casa vuota "si plasma" dopo un vuoto narrativo in cui presumiamo che sia passato un certo periodo durante il quale il cadavere è stato portato via.

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  7. Sei troppo gentile. Io volevo essere, tutto sommato, un rompipalle, riuscire a farti spiegare come mai secondo te 2+2 = 5 e tu, con una certa pazienza, lo hai spiegato. Ma si parte dall'assunto che la spiegazione è impossibile, perché irrazionale. Fai un uso tecnicamente sbagliato del termine ellissi e trovo anche interessante riuscire a plasmare qualcosa che si sottrae.
    Sia chiaro, nulla di personale, proponi film sempre molto validi, ma è un periodo in cui non riesco più a leggere una bella/ recensione/quadrata. E' una battaglia a tempo perso, persa anch'essa ovviamente. Non so più dove sbattere la testa - testa, per posare gli occhi - occhi e leggere una recensione priva di meta-narrazione. Stai bene, Jean Claude.

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  8. Forse il vero errore sta nella preposizione articolata, era più congruo un "dall'" che "nell'", ma vabbè, non modifico nulla, preferisco lasciare manifesta la mia defaillance, se poi ho fatto anche un uso improprio della figura retorica, beh, fortunatamente non c'è il mio vero nome qui :). Comunque non ti buttare giù dài, potrebbe esserci una soluzione: una volta parlai con un dj il quale mi disse che il motivo per cui iniziò a suonare fu perché in giro non gli piaceva la musica che i da lì a poco colleghi mettevano...

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  9. Un sorriso.
    Comunque spero di vedere presto questo film. Quando nella mia appena appena provinciale regione si degneranno di passarlo.
    L'unica cosa positiva - molto positiva - è che, quando si degneranno di passarlo, sarà in lingua originale.
    Ancor oggi mi chiedo cosa si possa aver compreso di quel bellissimo film che è stato Un prophète se lo si è veduto in italiano, mah.
    Saluti, Jean Claude.

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  10. Ah, ma credevo lo avessi visto e allora mi sono lasciato un po' andare con gli spoiler, perdonami!
    Sì la questione doppiaggio è un problema urgentissimo, soprattutto da quando internet ci ha dato la possibilità di mettere le mani sugli originali e di poterne udire tutta la loro bellezza, non è un fatto di qualità o bravura dei doppiatori, per come la vivo io trovo ad esempio dannatamente innaturale sentire un coreano che parla italiano, l'altro ieri ho visto Oltre le colline di Mungiu e in relazione a questo discorso sono nuovamente sorti in me parecchi dubbi.

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  11. Hai ragione è un problema urgente; fortunatamente questa rivoluzione culturale permessa da internet, ci dà la possibilità di vedere un film in lingua originale con sottotitoli.
    Il problema non si deve porre se si conosce la lingua in cui è girato il film, anche se non la si conosce bene, non importa, bisogna sforzarsi e guardarlo in originale. Prendo a paradigma di ciò che sto scrivendo Il profeta - lasciamo perdere l'ormai banale discussione dei titoli italiani appioppati ai vari film - perché ti assicuro, conoscendo il francese, che cambia radicalmente il film un volta doppiato; cambia proprio il senso. Il personaggio è un ignorante, si comprende appena apre bocca, Audiard gli fa utilizzare un francese rozzo, povero. Tutto ciò viene vanificato da un doppiaggio nel quale si sente il protagonista parlare correttamente, con perfetta dizione, etc. Tra l'altro ti assicuro che si perde addirittura la comicità di alcune scene.
    Paradigmatica quella dell'aeroporto, dove viene addirittura aggiunta una frase che manca totalmente nell'originale.
    Va bene che tradurre è anche un po' tradire, però non si esageri!
    Insomma, suppongo che tu abbia molti esempi da fare in proposito.
    Non ti preoccupare degli spoiler, la storia è l'ultima cosa che mi interessa nei film, nella narrativa.
    Céline parlava giustamente di stile, se aveva bisogno di una storia se la faceva raccontare da una vicina di casa.
    Saluti, Jean Claude.

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  12. Non ho visto Il profeta menchemeno in v.o., ma posso ahimè immaginare.
    Purtroppo la questione doppiaggio è delicata, chi ama il Cinema propende inevitabilmente alla verginità dell'opera, ma c'è anche da dire che doppiare è a suo modo un business, ci sono persone che ci campano e presumo ci siano scuole che insegnano (a pagamento ri-presumo) il mestiere. Io lo abolirei (cosa che farebbe anche Lynch, mi pare lo disse quando prese il leone d'oro alla carriera), ci sono però dietro meccanismi difficilmente smontabili, come pure lo spettatore medio che di stare a leggere le scrittine a fondo schermo proprio non gli garba.

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  14. E' un film così viscerale e dolente...
    mi ha lasciato senza parole. Riesce a commuovere senza mostrare patetismi, lo fa nei momenti più autentici e visto il tema trattato è un merito assolutamente non trascurabile.
    Ci sono però alcune scelte che ho trovato pretenziose (il piccione, la scena del sogno anche se più perdonabile), ma nel complesso rimane un'opera gigantesca.
    Ho trovato particolarmente brillante come ha trattato il "rimosso" del pianoforte di Anna, per gran parte della prima parte non viene mostrato e ne' fatto alcun accenno al suo passato da musicista, la malattia è spietatamente protagonista con tutta la sua forza distruttiva.

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  15. La questione del piccione rimane abbastanza aperta, non me lo sarei aspettato da Haneke una tale intromissione nel simbolo...

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