Ora, abbandonati a se stessi, i cacciatori diventano ciò che realmente sono: persone felici. Sono veramente liberi. Non hanno nessuna regola, nessuna tassa, nessun governo, nessuna legge, nessuna burocrazia, nessun film, nessuna radio.
Oscurato dal coevo Cave of Forgotten Dreams (2010), indiscutibilmente il più grande successo herzoghiano degli ultimi anni, Happy People: A Year in the Taiga è un progetto che vede l’autore tedesco nei panni di produttore, sceneggiatore insieme al figlio Rudolph, e co-regista con un completo sconosciuto di nome Dmitry Vasyukov. Plausibilmente il lavoro “sporco”, ovvero tutto ciò che riguarda le riprese sul campo durate minimo un anno, è stato effettuato da quest’ultimo anche perché Herzog in quel periodo doveva essere molto impegnato nella realizzazione dei suoi due film hollywoodiani. La paternità del documentario da parte di Werner si può comunque rintracciare, perché al di là della sua voce off che nell’accompagnare le immagini sullo schermo è ormai diventato un inconfondibile marchio di fabbrica, il film si poggia su un triplice assioma che fonda buona della lunga carriera: l’Uomo, la Natura, e il rapporto ombelicale che lega il primo alla seconda.
Lo scenario è la Taiga siberiana e il focus d’attenzione riguarda il piccolo villaggio di Bakhtia dove vivono alcuni cacciatori che durante l’inverno si allontanano dal centro abitato per inoltrarsi in luoghi tremendamente ostili: poca compagnia (al massimo quella dei propri cani), temperature ben al di sotto dello 0 (-30, -40) e rifugi di legno sopraffatti dalla neve, il tutto per uno stile di vita che pare andare oltre il mero guadagno economico (presumibilmente modesto) e assestarsi sui termini di una missione esistenziale, un’aderenza tra la ciclicità della natura e lo scorrere della vita umana che si adegua a tali ritmi; se da una parte Happy People si profila come un documentario à la Discovery Channel, e quindi molto attento alla divulgazione del tema trattato, dall’altra bisogna prendere atto di un comparto visivo dall’indubbio fascino (incredibile lo scioglimento della superficie ghiacciata del fiume) al quale si lega un ritratto antropologico che, come Herzog sottolinea, non sembra discostarsi troppo da uno preistorico.
La forza del film è proprio quella di creare una specie di anacronismo che vede dei cacciatori del ventunesimo secolo raffrontarsi con l’ambiente circostante in modo similare ai nostri antenati delle caverne, un legame scevro di quella retorica moderna pullulante di -ismi, crudo e duro per noi uomini urbani che possiamo dispiacerci per un animaletto azzannato da un cane senza pensare che la stessa identica sorte potrebbe capitare ad uno dei trappers alle prese con un orso.
In definitiva non uno degli Herzog più imprescindibili, e forse ciò si deve principalmente all’intromissione di Vasyukov nella regia, tutto sommato però degno di far parte della categoria d’appartenenza grazie a cartoline paesaggistiche a dir poco splendide e soggetti umani più che interessanti, probabilmente manca una storia tipicamente Herzog-style dietro ad una singola persona (che in tale modo diverrebbe un bel “personaggio”), ma la cosa non duole poi troppo e i novanta minuti di proiezione si affermano come cinema sempre piacevole da frequentare.
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