sabato 20 ottobre 2012

The Ape

Prosciugato l’argomento Falkenberg con due film sosia (regia di Falkenberg Farewell, 2006; produzione di Burrowing, 2009) nel 2009 Ganslandt si allontana dalla gabbia pseudo-documentaristica per approdare in quei gangli della finzione che impongono dei paletti, qui bisogna raccontare, non basta più affidarsi allo sconnesso flusso di coscienza del film precedente, c’è la necessità di montare uno scheletro narrativo corredato della relativa carne. Ganslandt sembra aver recepito la lezione e con spirito d’iniziativa aggira le imposizioni per fare di uno spunto non originalissimo come l’episodio di un massacro famigliare una variazione sul tema molto personale che tralascia abilmente ogni momento storico (quando è successo?), ogni movente (perché lo ha fatto?), e soprattutto l’indiziato poiché di indagini o investigazioni così come le si intende non ce ne sono, piuttosto ciò che Ganslandt indaga e pedina come il più arcigno degli stalker è lo stato d’animo del suo protagonista (un perfettamente nevrotico Olle Sarri che pare sia stato tenuto all’oscuro del copione fino al momento di girare), tratteggiando così un precipizio di lucidità post-follia dal forte sapore realistico, perché è vero che rispetto a Farväl Falkenberg c’è un’impalcatura più prestante a sorreggere l’ opera, tuttavia il canale visivo con la sua unica sorgente di esposizione è predisposto ugualmente all’assorbimento della realtà in maniera capillare.

E constate le assonanze di metodo si delinea una vicinanza anche nell’illustrare la figura umana presa in esame, una figura passiva che subisce o che ha subito, il protagonista di un percorso che porta ineluttabilmente all’annientamento di sé (il suicidio, per Krister solo tentato), certo è che, come detto, non sussiste alcuna premessa che stia ad indicare l’origine di un gesto così cruento, sicché in questo frangente il film pretende molto dallo spettatore perché per almeno mezz’ora quaranta minuti la storia si occupa di faccende apparentemente inutili saettate però da eccessi piccoli (Krister che vuole comprare una sega elettrica…) e grandi (l’aggressione verbale ai danni della praticante) che seminano il germe della tensione. Bisogna comunque dare fiducia a Ganslandt e attendere lo scioglimento della vicenda perché il suo è un approccio più che valido, veramente affilato nell’infliggere stilettate che sanguinano solo a fine visione: nel quadro generale si ricompongono tutti i tasselli che a prima vista apparivano scollati (il diverbio col giovane tennista: è qui la causa?) o insensati (la scena del coltello in casa della madre), e rimanendo fedele alla propria linea il regista evita di farci ascoltare le superflue domande della polizia per chiudere con una postilla che taglia in due il cuore di Krister, e non solo il suo.
Grazie del colpo, Jesper.

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