mercoledì 20 giugno 2012

Falkenberg Farewell

Non passi inosservato il fatto che molte delle pellicole incentrate sul disagio giovanile accedano alla radiografia di tale malessere attraverso una netta contestualizzazione, come a dire che la geografia sia la prima scienza a cui bisogna affidarsi per ritrarre e trattare gli under 30 che hanno smarrito, o forse non hanno mai trovato, la via della felicità.
E Jesper Ganslandt, esordiente nel 2006 con questo film, fa proprio così: dà nerbo al luogo che sarebbe sfondo inserendolo nel titolo. Falkenberg è infatti la cittadina svedese che si riconosce drammatica, impassibile, indolente base nella crescita di questi ragazzi.

La curva narrativa dell’opera abbraccia a fatica una commistione di generi, pesca a mani basse nel documentaristico con filmati d’epoca e mostra un particolare riguardo verso la natura, lavora con distacco la pietra grezza della tragedia, si abbandona all’estetismo finto sciatto, radente al Dogma, con la pedissequa lungimiranza di seguire gli attori tramite la mdp che diventa protesi meccanica di chi la maneggia. Il risultato è che dell’amicizia che lega i giovani ripresi non si hanno convincenti notizie, tanto più che il loro interloquire volutamente congelato nell’istante quotidiano comporta scambi dialogici infruttuosi, sipari di ordinaria noia in un paesetto dove l’apice colloquiale riguarda due signori che discutono al bar sulla presenza o meno di un gruppo musicale.

Al contrario, la porzione intima del film rivela e fertilizza.
Rivela perché nelle parole inchiostrate su carta e lette dalla voce off di David si comprendono molte cose, tutte spiacevoli: l’assenza di femminucce nell’infanzia e conseguentemente di ragazze nell’adolescenza (il tatuaggio con il logo della Nintendo è lì a testimoniarlo), e puntuale nel toccante monologo finale con l’imperturbabile cittadina a mo’ di carrellata visiva, David sogna la possibilità di un’altra vita lontano da lì, insieme ad una donna.
Il male invisibile viaggia veloce nella calligrafia, c’è la voglia di fuggire e di capire se il desiderio è solo il proprio o rintracciabile anche nell’animo del miglior amico, per infine giungere alla drastica conclusione che per lui, per David, non ci saranno più inverni.
E quindi fertilizza perché l’anestesia filmica che un po’ ammanta l’opera lascia comunque qualche interessante zona scoperta dove fiorisce almeno un’amara consapevolezza: il suicido è l’autostrada che si allontana dalla città, la barca che abbandona il porto, l’aereo che decolla: il suicidio come fuga, disperata, dalla piccola realtà afasica, nessuno parla davvero, ci vuole un diario postumo e segreto come scomodo fardello ad indicare la cronologia di una morte.

Ganslandt va però oltre la fine di David, e a testimonianza del fatto che Falkenberg ha un ruolo principale in questa storia, viene mostrato quasi cinicamente di come la cittadina non porti nessun lutto, e che tutto continui nel solito e inutile tran tran: ubriacarsi in discoteca, stapparsi un bong, giocare a calcio in un campetto in terra battuta.
Un film piccolo in definitiva, come piccolo è il paese che racconta, ma il vero addio non è rivolto alla comunità balneare bensì ad una categoria più che mai in bilico, senza nostalgia, senza calore, senza enfasi, una categoria infinita eppure a rischio d’estinzione: l’uomo.

2 commenti:

  1. Sei il fuoriclasse di un'ipotetica nazionale recensori. Uahaha.

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  2. Nell'ipotetica nazionale mi sento più nelle vesti di umile gregario, tipo Marchisio :)

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