martedì 14 agosto 2012

Burrowing

Era inevitabile che Falkenberg Farewell (2006) e Man tänker sitt (2009) parlassero la stessa lingua, e non ci riferiamo a quella svedese perché sarebbe una constatazione troppo evidente, bensì al linguaggio-cinema che nei due film si esprime nella medesima maniera e dice, grossomodo, le medesime cose. Era inevitabile perché le coincidenze si sprecano tanto da poter parlare di due opere gemelle totalmente sovrapponibili: innanzitutto ad accomunare le pellicole è la location di ripresa, questa piccola cittadina in riva al mare che non si può certo definire ridente, in secondo luogo a fungere da trait d’union ci pensano le trame produttive che vedono Fredrik Wenzel come regista di questo film insieme all’esordiente Henrik Hellström, già autore tre anni prima della sceneggiatura tradotta poi in immagini da Ganslandt, a sua volta produttore esecutivo di Burrowing.
In terzo luogo sono i contenuti a far combaciare definitivamente la coppia, perché anche qui l’intento è quello di ritrarre un periodo preciso della vita, più o meno tra i 20 e i 30 anni, che per questi ragazzoni nordici è colmo di infelicità.

È però altrettanto vero che Burrowing contiene peculiarità che differiscono da quanto detto sopra, e la più evidente riguarda la presenza di un narratore interno come Sebastian e non più la post-lettura del diario di David. Poco cambia a conti fatti, tuttavia così facendo i registi puntano a creare una distorsione narrativa che vede nella storia un Sebastian comportarsi come un bambino, mentre i suoi pensieri si addentrano in elucubrazioni adulte, in sottolineature filosofeggianti, oscure, metaforiche. Ma è tutto il film ad essere più “sospeso” del suo predecessore, Falkenberg, ad esempio, non viene mai nominato, lasciando quindi da parte quell’inquietudine sedimentata nella geografia del luogo. Ciò non significa che non vi sia traccia di segnali inquieti, tutt’altro, l’aria che si respira è densa e i vari personaggi paiono anime parecchio sofferenti. Il fatto che la sceneggiatura non prenda minimamente in considerazione la dimensione personale degli uomini sulla scena causa delle sfocature percettive che impediscono la comprensione di molto che viene offerto, in sintesi tale cappa di sofferenza trasuda come priva di motivazioni, è lì ed è raccolta con un taglio 100% realistico, ma non se ne coglie l’origine e di conseguenza resta in dubbio anche la missione del film stesso: cosa si voleva denunciare sempre ammesso che ciò rientrasse negli intenti dei due autori? Quali erano i propositi? E gli obiettivi? A tali domande controbattono dei flash, timidi effetti di un disagio dalle radici oscure: dal nulla un colpo di remi in testa ad un tizio, padre e figlio che si azzuffano, un uomo che trova pace fra i tronchi di un bosco.

Capitolo regia. Torniamo alle similitudini con l’opera del 2006 visto che qui, nella stessa maniera, Hellström e Wenzel puntano tantissimo sulle riprese con camera-car e su quelle con camera a mano. I risultati sul piano estetico sono decorosi con risvolti qua e là notevoli (il bagno a chiaro di luna), anche se la tendenza a variegare molto il registro e ad offrire un ventaglio di piani che va dal dettaglio (il fiore mangiato dal bimbo) all’inquadratura dall’alto più volte proposta, passando per tremolii, saturazioni di ombre e luci, rende il tutto segmentato, disomogeneo, un film che vive di getti piuttosto che di una corrente costante. Due parole anche sulle musiche di Erik Enocksson che sì sono decisamente belle ed evocative, ma che nell’uso che se ne fa, praticamente presenti ogni 5-10 minuti all’interno del film, diventano invadenti, perdono quella forza che invece avrebbero potuto donare se dosate con oculatezza.
Spin-off prescindibile di un film in buona parte bypassabile come Farväl Falkenberg.

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