Lui dottore, lei arredatrice o qualcosa di simile. Un giorno arrivano in ospedale i feriti di un incidente, uno è proprio lei, l’altro è l’amante.
Prodotto dalla Rosem Films, una casa di produzione che ha sede in Francia ma che si occupa principalmente di finanziare opere di autori cinesi, e diretto dal quarantottenne Wang Chao, vincitore dell’ Un Certain Regard nel 2006 con Luxury Car, Memory f Love (2009) è un film che trovando un felice spunto iniziale (il fatto che compagna e amante arrivino moribondi nel luogo dove lavora il marito è una bella miccia narrativa), si edifica successivamente attraverso l’espediente dell’amnesia e alla sua relativa terapia mnestica.
Una terapia duplice, e vediamo subito perché.
Il primo processo di riabilitazione, il più evidente, è quello di Sizhu che dopo essere ritornata indietro di 3 anni deve recuperare il tempo perduto in un percorso dove il marito è l’immalinconito Cicerone: si ritorna nei luoghi che hanno costruito mattone dopo mattone l’amore, si ravvivano gli eventi, le situazioni, i singoli oggetti. Sostanzialmente Sizhu vive per ricordare.
In questo tragitto c’è però da rimarcare un passo falso, una costrizione di sceneggiatura che poco convince: c’era davvero bisogno di ripresentare alla donna il proprio amante ormai cancellato dal passato? Sulla carta appare una mossa poco logica, nei fatti asseconda le esigenze filmiche per cui il triangolo deve avere un senso compiuto (e una relativa soluzione) all’interno della diegesi.
La seconda strada terapeutica, quella più sotterranea, riguarda il dottore che preso atto in maniera ben poco invidiabile del tradimento, per accompagnare la sua donna deve a sua volta incamminarsi lungo la strada del ricordo, ma lui ha un fardello molto pesante da trascinare, un’àncora che non gli permette alcun slancio affettivo: solo pensieri, neri, torbidi come le acque di quel lago. Praticamente il marito vive per dimenticare.
Ha sicuramente tatto questo regista cinese, nei modi e nei tempi; come da tradizione orientale la componente dialogica è piuttosto rarefatta lasciando spazio significativo al silenzio e all’immagine. Quando però la sobrietà del tutto accenna qualche riferimento a modelli più alti (Wong Kar-wai) si palesa una distanza ragguardevole soprattutto in termini di pathos e di eros, inoltre la complessiva staticità dell’opera, ancora retaggio di un certo cinema dagli occhi a mandorla, calcifica la visione che mai vivrà di una qualche accelerazione e nemmeno annovererà istantanee memorabili, se non una delle ultime scene ambientate nella sala da ballo.
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