È lo stesso
meccanismo de Il castello (2011) a sorreggere Materia
oscura (2013), altro film della coppia D’Anolfi-Parenti che ha
come target quello di portare a conoscenza una certa questione ma
senza esaltazione alcuna, tentando un aggancio a quella strana cosa
che è la realtà in rapporto al mezzo cinema. La certa
questione è: sperimentazioni belliche presso il Poligono di
Salto di Quirra, Sardegna orientale, praticamente una santabarbara a
cielo aperto dove dal ’56 in avanti sono state testate le peggio
cose che l’uomo in millenni di storia è riuscito a
partorire: le armi. Grosse armi: bombe, missili, e altre pericolose
schifezze. Dunque è vero che come nel Castello si
procede attraverso un metodo che appaia la narrazione all’immagine,
ma qui, va detto subito, mi pare si possa parlare di uno step oltre,
forse è l’abbandono alla ciclicità imposta nell’opera
precedente che forniva ancora delle coordinate orientative, o forse è
lo sguardo di D’Anolfi (è sempre lui ad occuparsi delle
riprese) sul territorio sardo, ben diverso dall’asetticità
di un aeroporto, che richiama quella componente atavica della natura,
di sicuro Materia oscura è di più, è uno
scenario dove purtroppo si prende atto dello scontro fratricida tra
l’ambiente e l’uomo che lo abita, ma chiaramente è un
conflitto impari: laddove gli abitanti reagiscono nel modo più
nobile ed alto che può esserci contro un’immotivata
dimostrazione di forza: la resistenza, gli animali si deformano,
muoiono, così come le persone. Nel mentre, e il
finale-pietra-tombale ce lo rammenta, il cielo è sconquassato
da assordanti esplosioni. A Salto di Quirra il mondo esplode.
Il cinema antiletterale
di D’Anolfi e Parenti veicola immagini di ieri e di oggi creando
dei vertiginosi cortocircuiti temporali che fanno stare male: ai
video archivistici, al sibilo dei fotogrammi che scorrono muti e ai
totem dalla coda infuocata che si alzano sul cielo isolano per poi
deflagrare, rispondono subito dopo, in un passaggio che solo il
cinema può regalare, due allevatori impegnati nel tentativo di
allattare un vitellino moribondo, e qui, in una sequenza con camera
fissa, si è testimoni di una silenziosa detonazione, ben più
devastante di qualunque ordigno militare: la morte. In questo cappio
di cause ed effetti presentati per quello che fattivamente sono, lo
spettatore non può che addentrarsi nella selva dell’amarezza
guidato da un cinema virgiliano: non ci sono più stelle da
vedere, solo i frammenti incandescenti della bestialità umana
dopo lo scoppio.
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