Piace assai il netto
contrasto su cui poggia Must Read After My Death (2007) perché
è un contrasto che si infuoca tra due punti estremi come il vedere e
l’udire: sullo schermo scorrono immagini in super 8 di una vita
famigliare ordinaria, istantanee in movimento di un’apparente
felicità arcaica, americana e reaganiana, però la voice-over che
accompagna questi sgranati fotogrammi è un pozzo nero pieno di
dolore e sofferenza, è una lunga confessione che appartiene ad
Allis, la nonna del regista Morgan Dews, così come appartiene,
probabilmente, a tutta una società che nascondeva sotto la patina
della perfetta famiglia nucleare delle profonde faglie personali,
mentali ed emotive, un disgregamento inarrestabile che qui trova
compimento nell’inglese di Allis, nevrotico e rovinato dal tempo,
registrato su delle cassette lasciate poi in eredità dopo la sua
morte, ed il peso di queste ammissioni che si susseguono in quello
che è un vero e proprio crescendo drammatico non ha modo di
mitigarsi se non con la morte del marito Charley, infatti se già
all’inizio con lo scambio vocale-epistolare tra i due coniugi si
cominciano ad intuire delle disfunzioni sentimentali (lui ammette di
amare altre donne), con il passare degli anni l’instabilità
relazionale della coppia si riversa sulla vita dei figli con effetti
deleteri, uno viene mandato in un istituto di cura (ed è importante
sottolineare la presenza di uno psicologo che probabilmente non è
mai stato di vero aiuto), una scappa di casa appena può, un altro,
fatalmente, muore in un incidente, in sintesi la famiglia si
distrugge, si scompone, si annulla, e dopo la dipartita non
chiarissima del marito, Allis tace per sempre.
Il film che ha forma e
struttura semplici lavora molto e bene sottotraccia e come tutte le
opere che fanno del materiale di repertorio strettamente personale e
intimistico il proprio canale visivo/comunicativo possiede un’energia
che trascende i fatti narrati e che abbraccia un ventaglio di
sentimenti ragguardevoli, se penso ad Un’ora sola ti vorrei
(2002) o a Quand je serai dictateur (2014) sento le stesse
cose, certo diverse se osservate separatamente ma così simili una
volta elaborate, di Must Read After My Death, ovvero l’afflato
di un cinema che trasmette con una potenza che può essere solo della
settima arte: l’incontrovertibilità del Tempo che non tornerà
più, le zone iridescenti e pulsanti di una memoria che è sì
singolare ma anche collettiva (è la storia di una famiglia
statunitense ma potrebbe essere la famiglia di chiunque, anche della
tua), l’irrimediabile piegarsi all’abbandono degli affetti, alla
scomparsa delle persone, all’affievolirsi dei ricordi, tutto ciò
trasporta in un altrove dove La nostalgia ci cinge in una danza
malinconica fatta di sovrimpressioni ottiche (unici accorgimenti
tecnici di Dews sul girato casalingo) e di uno score misurato
(curato dal compositore Paul Damian Hogan). Alla fine del ballo,
ritornati alle faccende che occupano mestamente la giornata, per un
attimo penserete ancora a questa vicenda consanguinea, ad Allis, a
Charley e ai loro figli, ai vostri genitori, e ai vostri fratelli.
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