Insieme a Konets veka
(2001) Rol (2013) è l’unico film in tutta la
carriera di Lopušanskij a non occuparsi espressamente di Apocalisse &
affini. Certo, quella che ad ora risulta essere l’ultima opera del
regista russo ha in sé una cifra finale oltre che una carica
(auto)distruttiva, ma è piuttosto circoscritta ad un singolo
individuo, o meglio ad un singolo ruolo: quello dell’attore. Il
lasciarci orfani delle migliori cartoline post-nuke che il cinema ha
offerto dagli anni ’80 in poi è un duro colpo difficile da
smaltire, in una realtà che tende spesso all’appiattimento
assistere alle incandescenze ottiche di The Ugly Swans (2006)
o ad un finale annichilente come quello di Dead Man’s Letters
(1986) sono occasioni che onestamente si vorrebbe capitassero più
spesso, ma Lopušanskij per The Role ha deciso di virare
altrove e non si può fare altro che prenderne atto. Già la scelta
del bianco e nero, utilizzata nel lontano passato soltanto una volta
con Solo (1980), ci pone su frequenze differenti che conducono
nel centro pulsante del film: l’autore ‘sta volta costruisce una
storia che riflette su di sé, la pellicola si trasforma in campo di
studio meta con particolare attenzione sulla figura attoriale e
sull’atto del recitare.
Inaspettatamente Rol
diviene un forum in cui assistiamo ad una delle infinite esplorazioni
della diatriba che sostanzia il cinema, l’idea di una realtà in
antitesi alla finzione è un concetto che Lopušanskij tenta di
dinamitare per mezzo di un registro che non disdegna slanci quasi
onirici, sospesi (ma mai del tutto) dalle logiche di una ferrea
narrazione dal carattere eminentemente storico. Diciamo che le
intenzioni del regista risultano valide e in grado di accendere
l’interesse, ed anche se di indagini teoretiche sulla
settima arte ne abbiamo già viste in quantità esorbitanti, la
proposta di Lopušanskij non è priva di fascino e forse di un
significato nemmeno troppo velato che io stesso, piccolo e indifeso
osservatore, ho maturato nel corso degli anni, il punto è che
l’attorialità in sé, ovvero l’ostentazione di metodi e tecniche
che ricreano una personalità fittizia, è una violenza al vero
cinema il quale, al contrario, deve tendere il più possibile alla
realtà, solo così si può andare incontro a qualcosa di vero, per
tutto il resto ci sono le uscite settimanali in sala. E infatti si
potrebbe vedere Nikolai come l’incarnazione della necessità di
disintossicarsi dalla finzione, il suo desiderio è d’altronde
quello di vestire i panni di un personaggio nel grande “teatro
della vita” lasciando perdere le banali particine dello show
plastificato. Il movimento di Nikolai che voglio vedere come un
pensiero più ampio abbracciato da Lopušanskij stesso è certificato
dal finale (questo in linea con l’estetica dell’autore) dove con
la morte del protagonista anche il sipario si chiude, perché
non c’è cinema senza vita.
Non è comunque un film
facile Rol, al di là di un’innegabile profondità la
visione di circa due ore deve fronteggiare un taglio formale che è
sicuramente raffinato ma che non aggiunge niente al nostro bagaglio
conoscitivo, l’impressione di una configurazione che si trattiene
nella classicità (pur essendo retta da un substrato interrogante)
non trasmette davvero nient’altro che non siano le proprie dispense
teoriche, tanto che il diffondersi sottile di una qualche piccola
carenza è ciò che ha toccato il sottoscritto una volta arrivati i
titoli di coda.
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