Dopo una prova incolore
come Lo and Behold (2016) – che però risulta il migliore
incasso mai registrato di Herzog in Italia (fonte) –, ci voleva
poco per offrire ad un pubblico sempre assetato di nuove visioni un
titolo che senza troppi panegirici potremmo riassumere col concetto
di “interessante”, concetto vago, me ne rendo conto, ma così è,
ed Herzog, comunque, quel poco pare lo sappia ancor fare e
quindi per l’occasione propone in Into the Inferno (2016)
una formula ampiamente rodata composta da tre istanze che così
amalgamate in passato generarono apprezzamenti. Un punto da non
sottostimare è dato dalla location solitamente esotica e dal
correlato album fotografico di cartoline memorabili, e qui visto che
si vola letteralmente da una parte all’altra della Terra (tra delle
isolette del Pacifico e l’Islanda c’è solo un battito di
ciglia), i panorami offerti sono di tutto rispetto (ci pensa già
l’incipit con il drone a provocare affascinanti vertigini), il
secondo punto basilare è la scelta di un tema portante, ok, questo
accade in ogni documentario fin dall’istituzione del genere,
bisogna però vedere quanto è il tasso di appeal sul singolo
spettatore, e se, per rimanere in tema-Hoerzog, il lavoro coevo
peccava in termini attrattivi, Dentro l’inferno ci racconta
dei vulcani più grossi e pericolosi del mondo, cioè anche solo
l’impatto visivo è di ben altro spessore rispetto alle stanze di
qualche università americana. Terza fondamentale questione è che di
sovente la traccia principale viene abbandonata in favore di altri
rivoli, piccoli e inessenziali, eppure maggiormente sfiziosi del
focus d’origine. Il suggello è poi dato dall’immancabile voce
narrante del regista che con il suo accento germanico ha creato un
vero e proprio marchio di fabbrica.
Into the Inferno è
all’incirca quanto ho appena sintetizzato, ovvio che se tu che stai
leggendo sei in cerca di visioni destabilizzanti, innovative e
pensate su una ricerca artistica, allora è meglio che posi gli
occhi altrove. Chi invece si accontenta di quasi due ore di
istruttivo disimpegno allora sappia che il film nasce ben dieci anni
prima dall’incontro tra Herzog ed il vulcanologo Clive Oppenheimer
sul set antartico di Encounters at the End of the World
(2007), e si può dire che Oppenheimer stesso diventi qua l’alter
ego di Herzog che davanti alla mdp dà sfogo ad una curiosità sì da
scienziato ma anche, appunto, herozghiana. Nel jet-lag che lo
spettatore avverte a fine proiezione c’è una componente
divulgativa in cui si viene edotti sulla pericolosità di alcuni
vulcani che in passato (recente e non) hanno causato ingenti danni,
oltre a ciò, ed è un oltre che appaga di più (… è il discorso
del paragrafo precedente), il buon Werner scova ulteriori affluenti
narrativi che acquisiscono un’importanza per nulla secondaria, ed
anche se a volte certe connessioni non paiono saldissime con la
materia prevalente (vedi la divagazione in Etiopia dove le faccende
magmatiche sono appena sfiorate, tuttavia si fa conoscenza di un
folle professore statunitense in ebollizione più dell’Eyjafjöll,
e tanto ci basta), sono quelle che rimarranno, almeno il tempo di
passare alla prossima pellicola, in fondo chi se ne importa di lava e
nubi piroclastiche se abbiamo l’incredibile occasione di vedere le
briciole di un mondo veramente a parte come la Corea del Nord.
A questo punto sul mio
taccuino ho segnato la parola “conclusioni”, ma che posso dire se
non una ripetizione dell’evidenza? Dentro l’inferno è un
oggetto vedibile con piccole punte di trasporto localizzate non a
caso più sul versante umano che su quello scientifico, un’area che
Herzog studia a suo modo da molto molto tempo, e ritrovare degli
scampoli di tale ricerca un po’ di benevola nostalgia la suscita.
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