Già
nel 2010 si vociferava che Surviving Life (Theory and Practice) poteva
essere il suo ultimo film, e per tutto questo tempo molti, compreso
chi scrive, hanno continuato a pensarlo, almeno fino all’annuncio un
po’ a sorpresa della presenza a Rotterdam ’18 di Hmyz
(2018): gioia e felicità: Jan Švankmajer
è ancora vivo e nonostante veleggi verso le ottantaquattro candeline
non ha minimamente smarrito il suo modo di fare cinema che, come
probabilmente nessun altro nel settore, proietta il concetto
di arte in spazi capaci di generare un conturbante stupore, ciò
si deve soprattutto alla manodopera che c’è dietro unita ad uno
sforzo inventivo così semplice e così bello da aver reso il regista
boemo un Maestro indiscusso, uno con tutti i suoi adorabili tic
stilistici, un burattinaio da luna park abbandonato a cui piace da
matti mostrare i confini che si mescolano, onirismo e realismo,
finzione e verità: è stato un viaggio fantastico e quest’ultima
tappa si è rivelata all’altezza di quanto l’ha preceduta. Se non
erro anche in Lunacy
(2005) Švankmajer
introduceva l’opera sminuendone in un certo modo il contenuto, per
Insect,
nonostante il periodo storico in cui fu scritta la pièce teatrale
dai fratelli Čapek, ci dice che non ha idea di cosa tratti il film
e che ha buttato giù la sceneggiatura di getto senza alcun
controllo morale o razionale. È ovviamente una deliziosa menzogna.
Qui assistiamo ad una pellicola testamentaria che mette in campo una
filosofia personale, un approccio, un metodo, un modo di lavorare che
è proprio dell’animatore nato a Praga, per cui Švankmajer,
checché ne dica, sa bene dove vuole dirigersi con il film: verso di
sé, e noi non possiamo né dobbiamo tirarci indietro.
Il
pretesto del mettere in scena lo spettacolo da parte di una
strampalata compagnia di attori (le prove sono buffissime e
soddisfano già un primo livello di lettura) è appunto un escamotage
per farci accedere nel dietro le quinte, non del film! ma
verosimilmente di un’intera filmografia. Il termine “metacinema”,
un’etichetta che fa venire le bolle a causa dell’abuso perpetrato
nei decenni, non rende giustizia alle mire dell’autore, qui non c’è
soltanto la rivelazione dei congegni dietro le varie trovate
(peraltro il piatto forte della casa, la tecnica passo uno, è
centellinato in poche entrate), Švankmajer compie un’azione
nettamente più sincera, mostra il suo personale processo artistico
e, avvalendosi di molteplici registri (si tocca addirittura il
documentario con le confessioni degli interpreti che parlano dei loro
sogni), sciorina un magnifico rimpallo tra Idea & Relativa
Concretizzazione specchiate dalla gemellarità dei commedianti che
provano le scene dell’esibizione. Sì, è una costruzione di
scatole cinesi, di matrioske che nella loro infinitesima parte, nel
cuore, nel centro, racchiudono un estro dannatamente vivo, una
proposta di cinema che, seppur partorita da un
ottuagenario, è di una freschezza, ma una freschezza che al solito contiene
perversioni e turbe della modernità, ammirevole. L’umore che pian
piano si instaura alla fine è questo: le interazioni tra i bizzarri
teatranti sarebbero potute andare avanti ancora a lungo a patto che
fossero costantemente accompagnate dalle incursioni di Švankmajer.
Tutti
speriamo che fra due, tre, cinque anni qualcuno possa scrivere in
occasione di una nuova uscita: “eppure si diceva che Hmyz
sarebbe
stato il suo ultimo film...”, ma vista l’età del soggetto e di
ciò che ha dichiarato pare impossibile, per cui il saluto da parte
di un umile spettatore non può che esserci ora: grazie di
cuore Jan.
mi unisco ai ringraziamenti....si trova insect?
RispondiEliminaSi trova si trova, ti mando una mail perché a segnalare qui link non ortodossi ho avuto problemi in passato.
RispondiEliminaRettifico: scrivimi tu perché non ho più la tua mail a causa del cambiamento della mia.
RispondiEliminaBuongiorno potrei chiedere il link? Grazie
RispondiEliminaCiao, scrivi pure alla mail che trovi nel mio profilo.
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