mercoledì 9 maggio 2018

Insect

Già nel 2010 si vociferava che Surviving Life (Theory and Practice) poteva essere il suo ultimo film, e per tutto questo tempo molti, compreso chi scrive, hanno continuato a pensarlo, almeno fino all’annuncio un po’ a sorpresa della presenza a Rotterdam ’18 di Hmyz (2018): gioia e felicità: Jan Švankmajer è ancora vivo e nonostante veleggi verso le ottantaquattro candeline non ha minimamente smarrito il suo modo di fare cinema che, come probabilmente nessun altro nel settore, proietta il concetto di arte in spazi capaci di generare un conturbante stupore, ciò si deve soprattutto alla manodopera che c’è dietro unita ad uno sforzo inventivo così semplice e così bello da aver reso il regista boemo un Maestro indiscusso, uno con tutti i suoi adorabili tic stilistici, un burattinaio da luna park abbandonato a cui piace da matti mostrare i confini che si mescolano, onirismo e realismo, finzione e verità: è stato un viaggio fantastico e quest’ultima tappa si è rivelata all’altezza di quanto l’ha preceduta. Se non erro anche in Lunacy (2005) Švankmajer introduceva l’opera sminuendone in un certo modo il contenuto, per Insect, nonostante il periodo storico in cui fu scritta la pièce teatrale dai fratelli Čapek, ci dice che non ha idea di cosa tratti il film e che ha buttato giù la sceneggiatura di getto senza alcun controllo morale o razionale. È ovviamente una deliziosa menzogna. Qui assistiamo ad una pellicola testamentaria che mette in campo una filosofia personale, un approccio, un metodo, un modo di lavorare che è proprio dell’animatore nato a Praga, per cui Švankmajer, checché ne dica, sa bene dove vuole dirigersi con il film: verso di sé, e noi non possiamo né dobbiamo tirarci indietro.

Il pretesto del mettere in scena lo spettacolo da parte di una strampalata compagnia di attori (le prove sono buffissime e soddisfano già un primo livello di lettura) è appunto un escamotage per farci accedere nel dietro le quinte, non del film! ma verosimilmente di un’intera filmografia. Il termine “metacinema”, un’etichetta che fa venire le bolle a causa dell’abuso perpetrato nei decenni, non rende giustizia alle mire dell’autore, qui non c’è soltanto la rivelazione dei congegni dietro le varie trovate (peraltro il piatto forte della casa, la tecnica passo uno, è centellinato in poche entrate), Švankmajer compie un’azione nettamente più sincera, mostra il suo personale processo artistico e, avvalendosi di molteplici registri (si tocca addirittura il documentario con le confessioni degli interpreti che parlano dei loro sogni), sciorina un magnifico rimpallo tra Idea & Relativa Concretizzazione specchiate dalla gemellarità dei commedianti che provano le scene dell’esibizione. Sì, è una costruzione di scatole cinesi, di matrioske che nella loro infinitesima parte, nel cuore, nel centro, racchiudono un estro dannatamente vivo, una proposta di cinema che, seppur partorita da un ottuagenario, è di una freschezza, ma una freschezza che al solito contiene perversioni e turbe della modernità, ammirevole. L’umore che pian piano si instaura alla fine è questo: le interazioni tra i bizzarri teatranti sarebbero potute andare avanti ancora a lungo a patto che fossero costantemente accompagnate dalle incursioni di Švankmajer.

Tutti speriamo che fra due, tre, cinque anni qualcuno possa scrivere in occasione di una nuova uscita: “eppure si diceva che Hmyz sarebbe stato il suo ultimo film...”, ma vista l’età del soggetto e di ciò che ha dichiarato pare impossibile, per cui il saluto da parte di un umile spettatore non può che esserci ora: grazie di cuore Jan.

5 commenti:

  1. mi unisco ai ringraziamenti....si trova insect?

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  2. Si trova si trova, ti mando una mail perché a segnalare qui link non ortodossi ho avuto problemi in passato.

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  3. Rettifico: scrivimi tu perché non ho più la tua mail a causa del cambiamento della mia.

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  4. Buongiorno potrei chiedere il link? Grazie

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  5. Ciao, scrivi pure alla mail che trovi nel mio profilo.

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