Lunacy, dall’inglese all’italiano: follia. Dall’italiano al cecoslovacco: Sìlenì.
Muoviamoci come lingue striscianti in cerca di una bocca, occhietti vitrei che rotolano, cervelli rugosi imbrattati di fango. Carne, bistecche, sangue.
Questo è il mondo di Švankmajer che nell’incipit del film avverte lo spettatore di trovarsi a cospetto di un horror (ma non sarà proprio così) e non ad un’opera d’arte poiché l’arte non esiste più (provocazione). In un anacronistico settecento il giovane e tormentato Jean di ritorno dal funerale di sua madre, incontra l’ambiguo Marchese che lo accoglie nella sua dimora. Il ragazzo scopre che il nobile si diletta in orge e riti blasfemi all’ombra di un cristo ricoperto di chiodi. Invece di fuggire, Jean, resta nella residenza perché incuriosito dalla finta morte del Marchese, il quale decide di portarlo nel manicomio del dottor Murllope per curarlo dai suo incubi notturni. Il dottore utilizza un metodo bizzarro per i suoi pazienti concedendo loro ogni libertà. Ma Jean viene forviato dalla bella Charlotte che lo esorta a liberare i veri dottori del manicomio rinchiusi nei sotterranei. Una volta ristabilito l’ordine le cose non andranno affatto bene.
Ecco, ordine contro disordine, follia contro razionalità. Lunacy oscilla fra queste dicotomie rimanendovi sospeso. Forse il messaggio di Švankmajer si cela in quelle inquietanti sequenze in stop-motion di organi che si muovono, quella è l’Arte. Una volta che Jean viene rinchiuso nel manicomio i pezzi di carne sono tutti inscatolati ed esposti sul bancone di un supermercato, di loro resta soltanto un lieve respiro dietro il cellophane. Qualcosa mi suggerisce che senza libertà non c’è Arte, anche perché nella grottesca riproduzione del dipinto di Delacroix, la libertà è impersonata da Charlotte, una donna che userà Jean solo per raggiungere i suoi fini: ovvero ristabilire l’ordine, la razionalità, e quindi negare l’Arte.
Banalmente si potrebbe intendere le due figure del Marchese e del vero direttore come il concetto di Yin e yang. Se il folle nobile ha abitudini quantomeno deprecabili è pur vero che non ha mai fatto del male a Jean e ai pazienti del manicomio sotto gli ordini di Murllope, ma è giusto ricordare di come egli segregò il vero personale nelle cantine ricoprendoli di piume (immagine fantastica). Parimenti, il vero direttore riporta sì l’ordine e la disciplina, ma lo fa con metodi violenti che spaccia per terapie riabilitative. Manca però quell’equilibrio fondativo proprio del concetto cinese, l’unico comun denominatore tra i due è la follia.
Nel complesso questo film è, fra tutti i lavori di Švankmajer, il meno ficcante. Non per una povertà di argomenti, ma per il motivo opposto: troppa carne (!) al fuoco. Tirando nella mischia De Sade (chiaro riferimento al Marchese), Poe e liberalismo francese, Švankmajer introduce troppi ingredienti che forse non riesce a dosare in maniera adeguata. Ma resta un prodotto unico nel panorama cinematografico, e alla luce di tutti e 5 i suoi lungometraggi, appare come un vero e proprio scandalo il fatto che qui in Italia non sia mai arrivato nessuno di questi film, nemmeno in home video.
Švankmajer è un autore che non può mancare all’attento cinefilo che sa scendere nelle profondità del cinema che sta oltre (il fondo?). Alice (1988), Faust (1994), Conspirators of Pleasure (1996), Little Otik (2000) e Lunacy (2005) sono pietre preziose incastonate nel deserto della banalità. Cercatele, ne vale la pena.
Muoviamoci come lingue striscianti in cerca di una bocca, occhietti vitrei che rotolano, cervelli rugosi imbrattati di fango. Carne, bistecche, sangue.
Questo è il mondo di Švankmajer che nell’incipit del film avverte lo spettatore di trovarsi a cospetto di un horror (ma non sarà proprio così) e non ad un’opera d’arte poiché l’arte non esiste più (provocazione). In un anacronistico settecento il giovane e tormentato Jean di ritorno dal funerale di sua madre, incontra l’ambiguo Marchese che lo accoglie nella sua dimora. Il ragazzo scopre che il nobile si diletta in orge e riti blasfemi all’ombra di un cristo ricoperto di chiodi. Invece di fuggire, Jean, resta nella residenza perché incuriosito dalla finta morte del Marchese, il quale decide di portarlo nel manicomio del dottor Murllope per curarlo dai suo incubi notturni. Il dottore utilizza un metodo bizzarro per i suoi pazienti concedendo loro ogni libertà. Ma Jean viene forviato dalla bella Charlotte che lo esorta a liberare i veri dottori del manicomio rinchiusi nei sotterranei. Una volta ristabilito l’ordine le cose non andranno affatto bene.
Ecco, ordine contro disordine, follia contro razionalità. Lunacy oscilla fra queste dicotomie rimanendovi sospeso. Forse il messaggio di Švankmajer si cela in quelle inquietanti sequenze in stop-motion di organi che si muovono, quella è l’Arte. Una volta che Jean viene rinchiuso nel manicomio i pezzi di carne sono tutti inscatolati ed esposti sul bancone di un supermercato, di loro resta soltanto un lieve respiro dietro il cellophane. Qualcosa mi suggerisce che senza libertà non c’è Arte, anche perché nella grottesca riproduzione del dipinto di Delacroix, la libertà è impersonata da Charlotte, una donna che userà Jean solo per raggiungere i suoi fini: ovvero ristabilire l’ordine, la razionalità, e quindi negare l’Arte.
Banalmente si potrebbe intendere le due figure del Marchese e del vero direttore come il concetto di Yin e yang. Se il folle nobile ha abitudini quantomeno deprecabili è pur vero che non ha mai fatto del male a Jean e ai pazienti del manicomio sotto gli ordini di Murllope, ma è giusto ricordare di come egli segregò il vero personale nelle cantine ricoprendoli di piume (immagine fantastica). Parimenti, il vero direttore riporta sì l’ordine e la disciplina, ma lo fa con metodi violenti che spaccia per terapie riabilitative. Manca però quell’equilibrio fondativo proprio del concetto cinese, l’unico comun denominatore tra i due è la follia.
Nel complesso questo film è, fra tutti i lavori di Švankmajer, il meno ficcante. Non per una povertà di argomenti, ma per il motivo opposto: troppa carne (!) al fuoco. Tirando nella mischia De Sade (chiaro riferimento al Marchese), Poe e liberalismo francese, Švankmajer introduce troppi ingredienti che forse non riesce a dosare in maniera adeguata. Ma resta un prodotto unico nel panorama cinematografico, e alla luce di tutti e 5 i suoi lungometraggi, appare come un vero e proprio scandalo il fatto che qui in Italia non sia mai arrivato nessuno di questi film, nemmeno in home video.
Švankmajer è un autore che non può mancare all’attento cinefilo che sa scendere nelle profondità del cinema che sta oltre (il fondo?). Alice (1988), Faust (1994), Conspirators of Pleasure (1996), Little Otik (2000) e Lunacy (2005) sono pietre preziose incastonate nel deserto della banalità. Cercatele, ne vale la pena.
Mah..non so se Lunacy mi sia piaciuto o meno. Sono d'accordo su quello che dici ma è pur sempre Svank e si DEVE vedere.
RispondiEliminaUna delle note stonate di questo film secondo me è l'eccessiva verbosità. I dialoghi sono troppo caricati, direi didascalici non so se ho reso l'idea.
a presto eras ;)
Epperforza!! Aiuta la mia povera mente, hai visto tutto di suo o ti mancano Faust e Alice?
RispondiEliminaEsattamente, ma il mulo non ne vuole sapere niente del Faust. :(
RispondiEliminaLa prossima settimana, invece, vedo Alice, e puntualmente ti farò sapere, sempre se ti interessa :D
Ma certo Mandy! Non esiste blogger che non si compiaccia di fronte ad un commento. Anche se negativo alla fine, perché in ogni caso significherebbe che quello che ha scritto è stato letto.
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