In un commento ad Epidemic sul sito Filmscoop.it uno spettatore si sentiva tradito da Lars von Trier accusandolo di aver girato un non-film.
È proprio così, Epidemic è un non-film (diegeticamente parlando, perché ovvio, questo È un film).
La cifra caratteristica di un’opera cinematografica è situata nel racconto, di una concezione della narrazione come un sistema di trasformazioni temporali in una successione di eventi precisi compresi fra un inizio ed una fine.
(Sainati & Gaudiosi, Analizzare i film; 2007)
In Epidemic non ci sono “paletti” fissi: quando inizia il film? Con lo sceneggiatore Niels Vorsel che si accende una sigaretta, oppure dall’istante in cui compare la scritta EPIDEMIC in alto a sinistra che permarrà fino alla conclusione? E quando finisce? Con il Dr. Mesmer (citazione a Poe) che risale il cunicolo di una cava, o con l’epidemia che sembra propagarsi nel mondo reale? Ma qual è il mondo reale?
Credo che su quest’ultima domanda si giochino le intenzioni del regista danese: qual è il limite del reale? Fino a che punto è legittimo parlare di finzione?
D’altronde nel cinema il confine tra realtà e finzione, da un punto di vista semantico non esiste, concordo con Abel Ferrara quando afferma che: “La gente mi dice: Ma nella vita reale... Ma di cosa parlano? Cos'è la vita reale? Sul set davanti alla macchina da presa, non sarebbe più vita reale? Cos'è, si passa in un'altra dimensione quando si gira un film?
Domande e ancora domande.
Se ne L’elemento del crimine (1984) il detective Fisher si identificava nell’assassino Harry Gray, qui Trier compie un passaggio ulteriore: fonde due mondi, quello filmico, diegetico, e la rappresentazione di quello reale. E il luogo in cui avviene questa fusione è semplicemente il cinema. Epidemic, a mio modo di vedere, non è altro che una dichiarazione d’amore del regista dogmatico alla settima arte. Il cinema, attraverso la macchina da presa, permette di costruire/decostruire la realtà strutturando/destrutturando una nuova realtà che però non bisogna sottovalutare in quanto essa non è così astratta come potrebbe apparire.
Il film ha qualche momento poco felice (non troppi però), in particolare le situazioni quasi da sit-com nello studio del regista, ma necessari per far risaltare la dicotomia realtà vs. finzione sottolineata anche dall’uso della camera: spesso a mano con zoommate coraggiose durante la stesura dello script, fissa con campi e controcampi durante il film (nel film).
Idem per la fotografia: sporca e sgranata nel primo caso, più linda nel secondo.
Buon finale, che richiama il suo primo lungometraggio con l’ipnosi della ragazza, e apocalittica panoramica aerea.
Europa (1991) conclude la trilogia europea.
È proprio così, Epidemic è un non-film (diegeticamente parlando, perché ovvio, questo È un film).
La cifra caratteristica di un’opera cinematografica è situata nel racconto, di una concezione della narrazione come un sistema di trasformazioni temporali in una successione di eventi precisi compresi fra un inizio ed una fine.
(Sainati & Gaudiosi, Analizzare i film; 2007)
In Epidemic non ci sono “paletti” fissi: quando inizia il film? Con lo sceneggiatore Niels Vorsel che si accende una sigaretta, oppure dall’istante in cui compare la scritta EPIDEMIC in alto a sinistra che permarrà fino alla conclusione? E quando finisce? Con il Dr. Mesmer (citazione a Poe) che risale il cunicolo di una cava, o con l’epidemia che sembra propagarsi nel mondo reale? Ma qual è il mondo reale?
Credo che su quest’ultima domanda si giochino le intenzioni del regista danese: qual è il limite del reale? Fino a che punto è legittimo parlare di finzione?
D’altronde nel cinema il confine tra realtà e finzione, da un punto di vista semantico non esiste, concordo con Abel Ferrara quando afferma che: “La gente mi dice: Ma nella vita reale... Ma di cosa parlano? Cos'è la vita reale? Sul set davanti alla macchina da presa, non sarebbe più vita reale? Cos'è, si passa in un'altra dimensione quando si gira un film?
Domande e ancora domande.
Se ne L’elemento del crimine (1984) il detective Fisher si identificava nell’assassino Harry Gray, qui Trier compie un passaggio ulteriore: fonde due mondi, quello filmico, diegetico, e la rappresentazione di quello reale. E il luogo in cui avviene questa fusione è semplicemente il cinema. Epidemic, a mio modo di vedere, non è altro che una dichiarazione d’amore del regista dogmatico alla settima arte. Il cinema, attraverso la macchina da presa, permette di costruire/decostruire la realtà strutturando/destrutturando una nuova realtà che però non bisogna sottovalutare in quanto essa non è così astratta come potrebbe apparire.
Il film ha qualche momento poco felice (non troppi però), in particolare le situazioni quasi da sit-com nello studio del regista, ma necessari per far risaltare la dicotomia realtà vs. finzione sottolineata anche dall’uso della camera: spesso a mano con zoommate coraggiose durante la stesura dello script, fissa con campi e controcampi durante il film (nel film).
Idem per la fotografia: sporca e sgranata nel primo caso, più linda nel secondo.
Buon finale, che richiama il suo primo lungometraggio con l’ipnosi della ragazza, e apocalittica panoramica aerea.
Europa (1991) conclude la trilogia europea.
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