‘Sta volta quel globetrotter di Herzog si ferma in Tibet per riprendere il rito buddista del Kalachakra, che tradotto in italiano significa, appunto, La ruota del tempo.
La cerimonia, presenziata dal Dalai Lama, è meta di pellegrinaggi lunghi ed estenuanti che durano anche anni e anni come testimoniano alcuni fedeli. La partecipazione a questo rituale, che vive in nome della tolleranza e della pace universale, comporta una sorta di benedizione speciale attraverso la visione del Mandala, un imponente disegno fatto di sabbia che rappresenterebbe il centro dell’universo, ma la sua raffigurazione può essere soltanto pensata e cambia da persona a persona.
Herzog c’è e filma tutto questo. Ne esce fuori un documentario “ordinato” (niente a che vedere con Fata Morgana, 1971, o Apocalisse nel deserto, 1992) che filma in tre momenti diversi: nel primo vengono mostrati i preparativi del Kalachakra nel tempio di Mahabodhi dove migliaia di pellegrini si sono recati per assistere al rituale, ma con sommo dispiacere apprendono che il Dalai Lama non potrà partecipare alla cerimonia a causa delle gravi condizioni di salute in cui versa.
Nel secondo Herzog si concentra sul monte Kailash sacro sia per i buddisti che per gli induisti.
Infine si reca a Graz nella sua terra natia, l’Austria, dove eccezionalmente è stato deciso di tenere un altro Kalachakra, questa volta con la partecipazione del Dalai Lama.
Un documentario nel vero senso della parola che regala qualche immagine nella memoria: su tutte il lungo pellegrinaggio per arrivare al tempio, lungo per il procedere a gattoni e a saltelli in avanti che forma calli sui palmi delle mani e bugne sulla fronte dei pellegrini. Colpisce la volontà di questi monaci che impiegano giorni, mesi, anni per arrivare al rito, la pazienza deve essere una delle migliori virtù dei buddisti e lo si capisce anche dall’amore certosino che mettono nel disegnare il Mandala.
Toccante la testimonianza del vecchietto, un personaggio al limite, e anche oltre, in pieno stile Herzog, che è stato imprigionato (presumo dai cinesi) per 37 anni solo per aver urlato: “Tibet libero!”, e che aveva come sogno più grande quello di poter vedere il Dalai Lama. Tra l’altro Sua Santità sembra un mattacchione perché alle domande di Herzog se la ride di gusto.
La voce narrante è di Marco Columbro (sì, proprio lui).
La cerimonia, presenziata dal Dalai Lama, è meta di pellegrinaggi lunghi ed estenuanti che durano anche anni e anni come testimoniano alcuni fedeli. La partecipazione a questo rituale, che vive in nome della tolleranza e della pace universale, comporta una sorta di benedizione speciale attraverso la visione del Mandala, un imponente disegno fatto di sabbia che rappresenterebbe il centro dell’universo, ma la sua raffigurazione può essere soltanto pensata e cambia da persona a persona.
Herzog c’è e filma tutto questo. Ne esce fuori un documentario “ordinato” (niente a che vedere con Fata Morgana, 1971, o Apocalisse nel deserto, 1992) che filma in tre momenti diversi: nel primo vengono mostrati i preparativi del Kalachakra nel tempio di Mahabodhi dove migliaia di pellegrini si sono recati per assistere al rituale, ma con sommo dispiacere apprendono che il Dalai Lama non potrà partecipare alla cerimonia a causa delle gravi condizioni di salute in cui versa.
Nel secondo Herzog si concentra sul monte Kailash sacro sia per i buddisti che per gli induisti.
Infine si reca a Graz nella sua terra natia, l’Austria, dove eccezionalmente è stato deciso di tenere un altro Kalachakra, questa volta con la partecipazione del Dalai Lama.
Un documentario nel vero senso della parola che regala qualche immagine nella memoria: su tutte il lungo pellegrinaggio per arrivare al tempio, lungo per il procedere a gattoni e a saltelli in avanti che forma calli sui palmi delle mani e bugne sulla fronte dei pellegrini. Colpisce la volontà di questi monaci che impiegano giorni, mesi, anni per arrivare al rito, la pazienza deve essere una delle migliori virtù dei buddisti e lo si capisce anche dall’amore certosino che mettono nel disegnare il Mandala.
Toccante la testimonianza del vecchietto, un personaggio al limite, e anche oltre, in pieno stile Herzog, che è stato imprigionato (presumo dai cinesi) per 37 anni solo per aver urlato: “Tibet libero!”, e che aveva come sogno più grande quello di poter vedere il Dalai Lama. Tra l’altro Sua Santità sembra un mattacchione perché alle domande di Herzog se la ride di gusto.
La voce narrante è di Marco Columbro (sì, proprio lui).
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