Ritorna dopo
sei anni di quasi silenzio (recuperate il gioiellino Swimmer
[2012], ne vale la pena)
l’apprezzata regista scozzese Lynne Ramsay, ed è un ritorno
spiazzante perché You Were Never Really Here (2017)
sembra un prodotto nettamente più appetibile se raffrontato ai
lavori precedenti, anche al recente ...E ora parliamo di Kevin (2011) che già presentava
una tenuta aperta a sguardi meno avvezzi all’autorialità pur
facendo parte, senza dubbio alcuno, del grande calderone-cinema
d’autore. Quest’ultima fatica presentata a Cannes ’17 dove ha
vinto ben due premi, miglior attore per Joaquin Phoenix e miglior
sceneggiatura a pari merito con Il sacrificio del cervo sacro (2017), è però
indirizzata verso lidi maggiormente accondiscendenti, non così
banali o scontati, sebbene l’ovvietà, nonostante il massiccio
impiego di mezzi tecnici e accorgimenti retrospettivi, è una buca in
cui inciampare è un attimo. La questione di fondo, rimarcata da
parecchie altre recensioni sparse in Rete, è che YWNRH non ha
una scrittura originale, il novero di pellicole accostabili è
numeroso e lo lascio elencare ad altri, ma resta comunque un
potenziale nonché antico problema: perché dobbiamo vedere qualcosa
che abbiamo già visto? Le complicazioni non diminuiscono nemmeno se
ci spostiamo sulle procedure di inscenamento, che la Ramsay avesse un
particolare talento visivo era risaputo, che qui venisse soffocato da
un’estesa spersonalizzazione non ce lo aspettavamo proprio, tanto
per dire il prologo, complice anche un accompagnamento musicale
synthtetico, pare un
surrogato di Drive (2011),
senza citare l’iconocità del martello come arma d’assalto che
era già stata canonizzata da Park Chan-wook (ecco, alla fine un
piccolo elenco ci è scappato, pardon).
A
meno di casi estremi il recensore di turno riesce sempre a trovare
qualche appiglio dove ricamare un complimento, quindi, visto che il
sottoscritto ha un cuore di marzapane, anche per A
Beautiful Day si possono
spendere un paio di lodi relative alla gestione di alcune sequenze
dove la regista si e ci ricorda di saper fare quello che fa: il blitz
all’interno del bordello clandestino visto attraverso le telecamere
di sicurezza è un bel concentrato di violenza e azione, idem per
l’irruzione della polizia nella camera di Joe con il tizio (a
proposito chi era?) che si becca una pallottola nel cranio in un
amen, e poi il bel funerale subacqueo dalla pregiata confezione che
ricorda il finale di Ratcatcher (1999,
e anche questo andate a recuperarlo). Sono comunque lampi che non
riescono a tamponare una crescente insoddisfazione, se a mente fredda
ragioniamo sulla struttura del film ci rendiamo conto di quanto sia
fondamentalmente basica, oserei dire povera se non fosse per la
massiccia dose di flashback che però, non me ne voglia la Ramsay,
agitano al massimo le acque della narrazione e nient’altro. Il Joe
che vediamo, un Phoenix al solito catalizzatore della proiezione
ormai al di sopra delle parti, non interpreta più nessuno se non
stesso, o almeno l’idea che ci ha trasmesso di lui (curiosa
l’assonanza titolistica con Joaquin Phoenix - Io sono
qui!, 2010), è un uomo vessato
da drammatici eventi del passato (mitragliati di tanto in tanto sullo
schermo) che lo perseguitano durante il lavoro di sicario,
discreta adrenalina e accensione del pulsante-curiosità, tuttavia
non si va granché oltre, a tal proposito è sintomatico il finale
nella villa che suggerisce esplicitamente una rappresentazione
mentale delle turbe insite nell’ex militare, l’allestimento
celebrale risulta però piuttosto scarico e non regala alcunché di
memorabile.
Mi
ha fatto sorridere un lapidario commento postato da un utente di
IMDb: “boring and
over-artsy. You wait for some type of plot to start, but its really
just a guy walking around in his head.”
È irrispettoso bollare in due righe un lavoro che avrà coinvolto
un’elevata quantità di professionisti e di denaro, ma se fossi in
Lynne Ramsay penserei un minimo alle ultime parole della stringata
bocciatura. Perché ciò che doveva essere il quid
pluris dell’intera faccenda, ovvero la fusione tra dimensione psicologica e una visione
artistica coniugata alla brutalità realistica non arriva a destinazione finendo a
tratti per avallare una specie di imborghesimento del cinema di genere?
Attendiamo smaniosi una risposta.
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