Sbocciatura autoriale: Ratcatcher (1999) è l’esordio nel lungometraggio per Lynne Ramsay, scozzese classe ’69 salita alla ribalta con ...E ora parliamo di Kevin (2011), che subito si dichiara indocile: il ragazzino del prologo, che poco dopo morirà, è attorcigliato nella tenda di casa, espressione allegorica di una prigione geografica che, appena la mdp esce dall’abitazione, si rivela tale. Questa porzione periferica di Glasgow è un girone dantesco di quotidiana mestizia, e al carico della povertà la Ramsay aggiunge un isolamento apocalittico, finanche simbolico, in cui i sacchetti di spazzatura immondano la quotidianità rendendo le persone ratti che ispezionano i rifiuti prodotti da loro stessi. La fertile similitudine fra luogo e uomo convince: il quartiere è una discarica a cielo aperto da cui non si può fuggire, chi la abita si adegua ad essere uno scarto – inconsapevole, vista la condotta deplorevole – della retta civiltà.
Azzeccata è la mise-en-scène, azzeccatissima è la corrispettiva rappresentazione del corollario subumano, non incredibilmente innovativa perché di padri ubriaconi e adolescenti spacconi ne è pieno il cinema, ma precisa e ben definita grazie alla complementarietà con ciò che sta intorno: solo sudiciume.
Si può fare il medesimo discorso con il fulcro del film: la pubertà ed età limitrofe calata in uno spaccato problematico ha stuzzicato l’intraprendenza di tanti registi, ne risulta che di opere à la Ratcatcher ce n’erano già state e ovviamente ce ne saranno tante altre in futuro, per tutte il salto qualitativo si individua nella realizzazione poiché le tematiche navigano sempre sulle stesse rotte, e in questo campo la cara Lynne, autrice anche della sceneggiatura, non fallisce l’appuntamento. Il suo è un film molto attento a piazzare la zampata giusta al momento giusto: citiamo come esempio la sequenza con il topolino bianco che viene preso di mira dal gruppo di bulli; l’autrice da una parte è abile ad edificare uno strato di sottile tensione dovuto alla prevaricazione del forte sul debole e dall’altra ad indirizzare la predizione dello spettatore che sarà puntualmente smentita poiché la soluzione viene certificata da uno slancio tanto poetico quanto surreale che, semplicemente, stupisce.
C’è comunque dell’altro, sequenze (quella in cui James visita in solitudine una casa che si affaccia su un campo di grano), piani (il plongée di James adagiato sul corpo dell’amica), e singoli dettagli (la crema rossa che cola dal gelato), capaci di arricchire e stratificare la visione.
Ne emerge in sostanza che Lynne Ramsay, fino a quel momento genitrice di soli tre corti, sa già come girare e come raccontare, ammesso che i due aspetti, nel suo cinema, possano essere scissi. La prima capacità è la conseguenza degli episodi sopraccitati ai quali si aggiunge un comparto fotografico di buon livello (la vicenda è ambientata negli anni ’70), la seconda affiora attraverso una narrazione volutamente stagnante in cui si procede con l’accumulo di episodi su episodi nei quali ogni personaggio viene oculatamente gestito a rotazione: facce (quella del protagonista buca il video) e storie che nel loro avvicendarsi creano un effetto domino laddove l’ultimo tassello è il piccolo James, un tassello che cade (/affoga) e a cui non resta che immaginare un’altra vita mentre la sua si sta placidamente inabissando.
Sbocciatura autoriale e così è. Ratcatcher, distribuito in Italia dall’Istituto Luce, è un film che merita l’immediata riscoperta e, come reazione spontanea, l’altrettanto immediato approfondimento di questa interessante regista britannica.
Azzeccata è la mise-en-scène, azzeccatissima è la corrispettiva rappresentazione del corollario subumano, non incredibilmente innovativa perché di padri ubriaconi e adolescenti spacconi ne è pieno il cinema, ma precisa e ben definita grazie alla complementarietà con ciò che sta intorno: solo sudiciume.
Si può fare il medesimo discorso con il fulcro del film: la pubertà ed età limitrofe calata in uno spaccato problematico ha stuzzicato l’intraprendenza di tanti registi, ne risulta che di opere à la Ratcatcher ce n’erano già state e ovviamente ce ne saranno tante altre in futuro, per tutte il salto qualitativo si individua nella realizzazione poiché le tematiche navigano sempre sulle stesse rotte, e in questo campo la cara Lynne, autrice anche della sceneggiatura, non fallisce l’appuntamento. Il suo è un film molto attento a piazzare la zampata giusta al momento giusto: citiamo come esempio la sequenza con il topolino bianco che viene preso di mira dal gruppo di bulli; l’autrice da una parte è abile ad edificare uno strato di sottile tensione dovuto alla prevaricazione del forte sul debole e dall’altra ad indirizzare la predizione dello spettatore che sarà puntualmente smentita poiché la soluzione viene certificata da uno slancio tanto poetico quanto surreale che, semplicemente, stupisce.
C’è comunque dell’altro, sequenze (quella in cui James visita in solitudine una casa che si affaccia su un campo di grano), piani (il plongée di James adagiato sul corpo dell’amica), e singoli dettagli (la crema rossa che cola dal gelato), capaci di arricchire e stratificare la visione.
Ne emerge in sostanza che Lynne Ramsay, fino a quel momento genitrice di soli tre corti, sa già come girare e come raccontare, ammesso che i due aspetti, nel suo cinema, possano essere scissi. La prima capacità è la conseguenza degli episodi sopraccitati ai quali si aggiunge un comparto fotografico di buon livello (la vicenda è ambientata negli anni ’70), la seconda affiora attraverso una narrazione volutamente stagnante in cui si procede con l’accumulo di episodi su episodi nei quali ogni personaggio viene oculatamente gestito a rotazione: facce (quella del protagonista buca il video) e storie che nel loro avvicendarsi creano un effetto domino laddove l’ultimo tassello è il piccolo James, un tassello che cade (/affoga) e a cui non resta che immaginare un’altra vita mentre la sua si sta placidamente inabissando.
Sbocciatura autoriale e così è. Ratcatcher, distribuito in Italia dall’Istituto Luce, è un film che merita l’immediata riscoperta e, come reazione spontanea, l’altrettanto immediato approfondimento di questa interessante regista britannica.
Solo in questo blog posso trovare recensite queste pellicole ;)
RispondiEliminaA me fece una bella impressione, anche, ma come scrissi non mi ha convinto dal punto di vista più filmico. Lì nel Regno Unito non sono nuovi a scenari di denuncia, ma riescono generalmente a far coesistere molto bene finzione filmica e critica sociale. Questo film, invece, a mio avviso non ci riesce: è molto forte e funzionale quando inquadra uno stato sociale e ne trasmette il grigiore emotivo; è molto debole, al contrario, nell'evoluzione introspettiva e più in generale in quella narrativa. Parere personale, ovviamente.
In ogni caso, però, meritevole.
Potrei fare all'incirca la stessa critica per quanto riguarda Kevin. Lì ho in buona parte ravvisato quello che dici tu: il comparto psicologico presta il fianco a qualche cedimento, l'ho trovato debole quando rimette platealmente l'odio irrazionale del bimbo nei confronti della madre.
RispondiEliminaMa Ramsay ha una dote che sbianchetta le macchie d'inchiostro: sa raccontare con le immagini, e per questo la stimo parecchio.
Per la cronaca Ratcathcer mi è piaciuto veramente tanto e di incolparlo per una qualche manchevolezza non me la sento affatto.
p.s.: Elio quando torni a scrivere?
Io Kevin non l'ho ancora visto, in realtà. Però il tuo aver ravvisato il problema che io ho trovato in questo, debbo dire, non mi spinge granché a vederlo.
EliminaP.S. Eh, se e quando mi passa questo grigiore diffuso ;)
A volte il grigiore diffuso può essere schiarito proprio dalla scrittura :)
RispondiEliminami colpì la cover della criterion collecion e lo visionai all'incirca due anni fa (è buffo ma a volte mi capita di vedere film per questi motivi così "bassi"), ritrovai quell'immagine, quel bambino morto attonito, un'inquadratura suggesttiva, impressiva. Mi piacque davvero tanto il film, l'occhio della macchina da presa si fa sentire, ed ha maestria. E' vero, come dici "sa raccontare con le immagini". Se a distanza di tempo lo ricordo così bene un motivo ci sarà.
RispondiEliminaNon ti credere, anche a me capita di dare alla locandina un peso importante nella scelta di visione. Non è una motivazione così bassa secondo me, già dal poster può succedere che lo spirito del film venga raffigurato a dovere e che perciò stimoli il nervo ottico dello spettatore.
RispondiEliminaRatcatcher mi è piaciuto tantissimo, ed ha un finale splendido, penso proprio che anche io lo ricorderò volentieri da qui in avanti.