La prima inquadratura, generata da un interessante effetto digitale, trova nel contre-plongée un’immediata epifania con il titolo: qualcosa in cima alle scale, ergo: la vista soggettiva di chi sta sotto (noi spettatori), implementata poco dopo da un medesimo accorgimento: la mdp posta perpendicolarmente alla fronte di Pietro spiaccicata sulla porta. Volutamente o involontariamente il regista Michele Torbidoni suggerisce il piano su cui ci si deve assestare: qui si parla di ciò che sta sopra, nella testa, nei ricordi. Vediamo sinteticamente come se ne parla.
Torbidoni ammette nella sua biografia (link) che di mestiere fa altro, ma che, milioni di anni fa (parole sue), ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia romano nel corso di Regia. Di ciò che è successo nel frattempo a noi non interessa (solo per la cronaca: nel ’95 il primissimo lavoro: The Net), di contro interessa che solo recentemente, per una serie di eventi, si sono create le condizioni capaci di far partorire questo cortometraggio della durata di circa 20 minuti. Tempo in cui le dimostrazioni di una certa appropriatezza tecnica si riversano sullo schermo, cose piacevoli del tipo: la ripresa del protagonista che scende dal taxi resa circolare dal montaggio, l’attenzione elevata al “comparto-luci” (i due quadrati nell’oscurità che assomigliano alla fenditura sul soffitto; i raggi di sole che filtrano dalle persiane del ristorante abbandonato; le atmosfere divergenti tra realtà e flashback, l’una calda [passato], l’altra fredda [presente]), la geometria di alcuni quadri, e in ultimo il livello recitativo che spesso si presenta come il principale tallone d’Achille di queste produzioni indipendenti, mentre qui a Gianluca D’Ercole non si può obiettare niente, disinvolto anche quando resta solo sul set, ha il merito, tra l’altro, di assomigliare a Jared Leto, e in una scena (quella in cui si avvicina al cartello “senso unico”) di richiamarlo ai nostri occhi cinefili direttamente da Mr. Nobody (2009).
La professionalità della trasmissione non è però raggiunta dal nucleo raccontato. Nel deficit ci sono ancora due cose che aggradano: l’assenza di spiegazioni superflue, e una sorta di stratificazione concettuale che va oltre il clamore del twist conclusivo. La sovrapposizione temporale gioca infatti con il prima e il dopo che corrispondono alle diverse età del protagonista, in un susseguirsi di ricordi disvelanti. Ed è proprio questo aspetto, questa descrizione un po’ abusata del dramma infantile mai superato (la pipì), a non rendere completo il film che, sempre in tale ambito, si presta ad un’altra flessione, quella riguardante il procedimento per cui Pietro-adulto si avvicina alla sua infanzia; le apparizioni fugaci di lui medesimo in bicicletta sono passaggi esplicativi che non hanno molta freschezza, anche se, va detto, vengono proposti in maniera dignitosa.
Il finale, in cui si è optato per un massiccio utilizzo di computer grafica, è difficile da analizzare perché risulta spalancato ad ogni interpretazione, Torbidoni non dice apertamente che cosa vi sia lassù in cima alle scale, piuttosto ce lo mostra con gli occhi del bambino-Pietro che spaventato dal mondo dei grandi (suo padre è un bel cattivo esempio) vede una proiezione di se stesso: cresciuto, ma sempre impaurito.
Torbidoni ammette nella sua biografia (link) che di mestiere fa altro, ma che, milioni di anni fa (parole sue), ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia romano nel corso di Regia. Di ciò che è successo nel frattempo a noi non interessa (solo per la cronaca: nel ’95 il primissimo lavoro: The Net), di contro interessa che solo recentemente, per una serie di eventi, si sono create le condizioni capaci di far partorire questo cortometraggio della durata di circa 20 minuti. Tempo in cui le dimostrazioni di una certa appropriatezza tecnica si riversano sullo schermo, cose piacevoli del tipo: la ripresa del protagonista che scende dal taxi resa circolare dal montaggio, l’attenzione elevata al “comparto-luci” (i due quadrati nell’oscurità che assomigliano alla fenditura sul soffitto; i raggi di sole che filtrano dalle persiane del ristorante abbandonato; le atmosfere divergenti tra realtà e flashback, l’una calda [passato], l’altra fredda [presente]), la geometria di alcuni quadri, e in ultimo il livello recitativo che spesso si presenta come il principale tallone d’Achille di queste produzioni indipendenti, mentre qui a Gianluca D’Ercole non si può obiettare niente, disinvolto anche quando resta solo sul set, ha il merito, tra l’altro, di assomigliare a Jared Leto, e in una scena (quella in cui si avvicina al cartello “senso unico”) di richiamarlo ai nostri occhi cinefili direttamente da Mr. Nobody (2009).
La professionalità della trasmissione non è però raggiunta dal nucleo raccontato. Nel deficit ci sono ancora due cose che aggradano: l’assenza di spiegazioni superflue, e una sorta di stratificazione concettuale che va oltre il clamore del twist conclusivo. La sovrapposizione temporale gioca infatti con il prima e il dopo che corrispondono alle diverse età del protagonista, in un susseguirsi di ricordi disvelanti. Ed è proprio questo aspetto, questa descrizione un po’ abusata del dramma infantile mai superato (la pipì), a non rendere completo il film che, sempre in tale ambito, si presta ad un’altra flessione, quella riguardante il procedimento per cui Pietro-adulto si avvicina alla sua infanzia; le apparizioni fugaci di lui medesimo in bicicletta sono passaggi esplicativi che non hanno molta freschezza, anche se, va detto, vengono proposti in maniera dignitosa.
Il finale, in cui si è optato per un massiccio utilizzo di computer grafica, è difficile da analizzare perché risulta spalancato ad ogni interpretazione, Torbidoni non dice apertamente che cosa vi sia lassù in cima alle scale, piuttosto ce lo mostra con gli occhi del bambino-Pietro che spaventato dal mondo dei grandi (suo padre è un bel cattivo esempio) vede una proiezione di se stesso: cresciuto, ma sempre impaurito.
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