Gli occhi di Laura
Waddington devono avere visto molto, sicuramente parecchio in più
rispetto agli occhi dei suoi spettatori. Lei, londinese classe 1970,
non si sa nemmeno se definirla una “regista”, leggendo infatti la
sua biografia (link) si comprende di come il cinema, nonostante una
formazione sul campo in materia, venga dopo un continuo girovagare per il
mondo, anche se, forse, funziona così per tutti coloro che fanno
della vera settima arte, in altre parole la distanza che
separa il cinema dalla vita vissuta è uno spazio così
infinitesimale che tutto dà l’illusione di fondersi a vicenda,
sicché non è più la vita che entra nel cinema ma il contrario, il
set è l’esistenza, gli attori siamo noi, il ciak è il sole che
ogni mattina sorge a est. Da un mood del genere affiora un corto come
Border (2004), resoconto su quanto la Waddington vide nel 2002
quando si recò a Sangette, comune francese situato a Pas-de-Calais
(luogo che anche Sylvain
George
conosce bene), dove un folto gruppo di rifugiati afgani e
iracheni tentavano notte e dì la fuga verso l’Inghilterra. Al di là
della perenne attualità di tematiche del genere, il lavoro della
Waddington presenta almeno un importante motivo di interesse.
Il film sotto esame, come
è facile intuire, ha un peso specifico fortemente politico, parliamo
di un oggetto che si mimetizza con i clandestini, che sta con
loro in mezzo all’erba in attesa di un qualche segno (e il pensiero
va a Before Dawn, 2005) e che rischia le manganellate della
polizia durante dei tumulti urbani, quindi sarebbe pronosticabile una
decisa e pressoché inevitabile presa sulla realtà, invece la
Waddington si allontana sorprendentemente da un registro di tal fatta
arrivando a compiere un’astrazione, tutta fondata sull’estetica,
che dà a Border un altro tono, difficile capire quale,
sappiate, almeno, che c’è. D’altronde ad un certo punto lo dice
la filmmaker stessa nel corso di uno dei suoi brevi interventi in
voice over sulle immagini: “se ripenso adesso al campo profughi mi
sembra tutto un sogno”, e suddetta sensazione arriva al fruitore
perché per mezzo di manipolazioni tecniche (ho scorto una sorta di
rallentamento della traccia video) il quadro diventa pastoso, un
quadro impressionista fatto di granuli e sagome sbordate. L’effetto
complessivo produce un allontanamento dalla concretezza dei fatti
anche perché fortificato da un costante e penetrante acuto sonoro
che si silenzierà soltanto nelle scene dei tafferugli dove le urla
degli immigrati risucchieranno ogni componente uditiva.
Quindi dobbiamo
rapportarci con una pista duplice laddove siamo consapevoli che in
Border viene ripreso un, se non IL, problema di questo
assortimento di Stati che cerchiamo di chiamare Europa, al contempo
però non vedremo mai nitidamente un profugo, solo ombre fugaci e
indistinguibili che si muovono circospette in un ambiente ostile, e
probabilmente va anche bene così, Border è un esempio di
quanto la forma documentario, e quindi una forma caratterizzata
da un canale tendente al realismo, possa spaziare in alti e altri
gradi percettivi avvalendosi di traiettorie lontane finanche
divergenti senza che ciò ne comprometta la
portata concettuale.
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