lunedì 14 maggio 2018

Border

Gli occhi di Laura Waddington devono avere visto molto, sicuramente parecchio in più rispetto agli occhi dei suoi spettatori. Lei, londinese classe 1970, non si sa nemmeno se definirla una “regista”, leggendo infatti la sua biografia (link) si comprende di come il cinema, nonostante una formazione sul campo in materia, venga dopo un continuo girovagare per il mondo, anche se, forse, funziona così per tutti coloro che fanno della vera settima arte, in altre parole la distanza che separa il cinema dalla vita vissuta è uno spazio così infinitesimale che tutto dà l’illusione di fondersi a vicenda, sicché non è più la vita che entra nel cinema ma il contrario, il set è l’esistenza, gli attori siamo noi, il ciak è il sole che ogni mattina sorge a est. Da un mood del genere affiora un corto come Border (2004), resoconto su quanto la Waddington vide nel 2002 quando si recò a Sangette, comune francese situato a Pas-de-Calais (luogo che anche Sylvain George conosce bene), dove un folto gruppo di rifugiati afgani e iracheni tentavano notte e dì la fuga verso l’Inghilterra. Al di là della perenne attualità di tematiche del genere, il lavoro della Waddington presenta almeno un importante motivo di interesse.

Il film sotto esame, come è facile intuire, ha un peso specifico fortemente politico, parliamo di un oggetto che si mimetizza con i clandestini, che sta con loro in mezzo all’erba in attesa di un qualche segno (e il pensiero va a Before Dawn, 2005) e che rischia le manganellate della polizia durante dei tumulti urbani, quindi sarebbe pronosticabile una decisa e pressoché inevitabile presa sulla realtà, invece la Waddington si allontana sorprendentemente da un registro di tal fatta arrivando a compiere un’astrazione, tutta fondata sull’estetica, che dà a Border un altro tono, difficile capire quale, sappiate, almeno, che c’è. D’altronde ad un certo punto lo dice la filmmaker stessa nel corso di uno dei suoi brevi interventi in voice over sulle immagini: “se ripenso adesso al campo profughi mi sembra tutto un sogno”, e suddetta sensazione arriva al fruitore perché per mezzo di manipolazioni tecniche (ho scorto una sorta di rallentamento della traccia video) il quadro diventa pastoso, un quadro impressionista fatto di granuli e sagome sbordate. L’effetto complessivo produce un allontanamento dalla concretezza dei fatti anche perché fortificato da un costante e penetrante acuto sonoro che si silenzierà soltanto nelle scene dei tafferugli dove le urla degli immigrati risucchieranno ogni componente uditiva.

Quindi dobbiamo rapportarci con una pista duplice laddove siamo consapevoli che in Border viene ripreso un, se non IL, problema di questo assortimento di Stati che cerchiamo di chiamare Europa, al contempo però non vedremo mai nitidamente un profugo, solo ombre fugaci e indistinguibili che si muovono circospette in un ambiente ostile, e probabilmente va anche bene così, Border è un esempio di quanto la forma documentario, e quindi una forma caratterizzata da un canale tendente al realismo, possa spaziare in alti e altri gradi percettivi avvalendosi di traiettorie lontane finanche divergenti senza che ciò ne comprometta la portata concettuale.

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