Di Georgica (1998)
c’è molto perché se guardiamo la parte estetica e anche quella
narrativa i punti in comune con Somnambuul (2003) sono
parecchi, di nuovo abbiamo sulla scena due figure conv/divergenti che
vivono in una zona ageografica, quasi isolati dal resto di un’umanità
che entra ed esce dalle loro vite, o forse dalle loro menti, e
nuovamente le due persone sono una anziana ed una più giovane a
segnare la duplicità di un percorso esistenziale pieno di passi
indietro, stasi e salti in avanti; dal punto di vista formale Sulev
Keedus dipinge su pellicola un quadro che non può non flirtare col
cinema russo e che si esalta nei campi totali con la mdp spesso
adagiata al suolo in modo da poter cogliere meglio la maestosità del
paesaggio. Ad essere precisi qui la componente surreale che fioriva
nel film precedente è più limitata poiché il tasso di “stranezza”
è maggiormente indirizzato verso l’area sceneggiaturiale,
Somnambuul infatti si divide tra il nitore di un’immagine
che ha impatti potenti (ancora una barchetta solitaria sull’infinità
dell’acqua) ed il grondare di parole pronunciate dall’instabile
figlia, se ci pensiamo un attimo questo connubio è oltremodo
particolare perché in un’opera contemplativa non è usuale trovare
una massa dialogica del genere e parimenti in un titolo dove il tasso
di finzione è elevatissimo (la recitazione della ragazza è
enfatizzata al massimo) è raro che si aprano finestre visive dai
tempi dilatati e rarefatti.
Se sopravviverete
ad un testacoda così, vi toccherà anche ragionare su che cosa
abbiate visto. Credo che pretendere la totale comprensione del film
sia troppo, pur mettendoci tutta la buona volontà Keedus
ci circuisce con la sua nebbia obnubilante e allora non si può che
raccogliere le briciole di una storia che annovera squilibri e
fantasmi, misteri e sofferenze, tutti elementi incanalati nella nevrotica Eetla (l’attrice si chiama Katariina Unt e reciterà
in futuro per il connazionale Õunpuu), una donna che, come le
ricorda il padre, non scorge più il sogno dalla realtà, e noi
nemmeno: le due dimensioni sono indistinguibili e ciò aumenta il
tasso di difficoltà fruitiva, ma ovviamente meglio trovarci in
ambasce che con il bavaglino pronti per l’omogeneizzato. Un ruolo
importante lo ha sicuramente una figura che mai compare nella
diegesi, quello della madre assente è un perno su cui Eetla ruota incapace di afferrare alcunché, la cifra ectoplasmica
della genitrice fa sì che la figlia in un atto di
continua evocazione ne assuma le sembianze (d’altronde, se non ho frainteso,
perde la verginità con un ex amante della mamma) senza riuscire ad
andare fino in fondo, non per niente la pellicola inizia con la
giovane che avuta l’opportunità di scappare dall’Estonia decide
di non partire per la Svezia, a differenza della madre che li aveva
abbandonati tempo prima.
Un’altra questione
altrettanto centrale sebbene non venga posta in primo piano è quella
della guerra. Lo scenario così lontano e sospeso come quello di un
faro fa dimenticare il motivo portante dell’opera (ricordato nei
titoli di coda) che è il risultato dell’atmosfera bellica nel Paese e che, giusto per ripetere, ha nella testa della
povera Eetla un riverbero di terrore. Il conflitto non si vede mai, però
se ne avverte l’alito (la vacca sulle ginocchia è un simbolo di
sottomissione) e il rumore (le mitragliate degli aerei), si paventa
l’eventualità di uno stupro che poi si realizza: la guerra è un
soldato scemotto che non parla. Pure per le conclusioni è opportuno
rifarsi alla similitudine con Georgica, giunti alla fine di
Somnambuul la completa soddisfazione brancola ancora nella
caligine dello spaesamento, abbiamo visto, ed è fondamentale,
cosa, come, chi, perché, quando, dove, ecc., sono quesiti che si
affastellano, il che non è affatto un aspetto negativo.
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