mercoledì 1 agosto 2018

Somnambulance

Di Georgica (1998) c’è molto perché se guardiamo la parte estetica e anche quella narrativa i punti in comune con Somnambuul (2003) sono parecchi, di nuovo abbiamo sulla scena due figure conv/divergenti che vivono in una zona ageografica, quasi isolati dal resto di un’umanità che entra ed esce dalle loro vite, o forse dalle loro menti, e nuovamente le due persone sono una anziana ed una più giovane a segnare la duplicità di un percorso esistenziale pieno di passi indietro, stasi e salti in avanti; dal punto di vista formale Sulev Keedus dipinge su pellicola un quadro che non può non flirtare col cinema russo e che si esalta nei campi totali con la mdp spesso adagiata al suolo in modo da poter cogliere meglio la maestosità del paesaggio. Ad essere precisi qui la componente surreale che fioriva nel film precedente è più limitata poiché il tasso di “stranezza” è maggiormente indirizzato verso l’area sceneggiaturiale, Somnambuul infatti si divide tra il nitore di un’immagine che ha impatti potenti (ancora una barchetta solitaria sull’infinità dell’acqua) ed il grondare di parole pronunciate dall’instabile figlia, se ci pensiamo un attimo questo connubio è oltremodo particolare perché in un’opera contemplativa non è usuale trovare una massa dialogica del genere e parimenti in un titolo dove il tasso di finzione è elevatissimo (la recitazione della ragazza è enfatizzata al massimo) è raro che si aprano finestre visive dai tempi dilatati e rarefatti.

Se sopravviverete ad un testacoda così, vi toccherà anche ragionare su che cosa abbiate visto. Credo che pretendere la totale comprensione del film sia troppo, pur mettendoci tutta la buona volontà Keedus ci circuisce con la sua nebbia obnubilante e allora non si può che raccogliere le briciole di una storia che annovera squilibri e fantasmi, misteri e sofferenze, tutti elementi incanalati nella nevrotica Eetla (l’attrice si chiama Katariina Unt e reciterà in futuro per il connazionale Õunpuu), una donna che, come le ricorda il padre, non scorge più il sogno dalla realtà, e noi nemmeno: le due dimensioni sono indistinguibili e ciò aumenta il tasso di difficoltà fruitiva, ma ovviamente meglio trovarci in ambasce che con il bavaglino pronti per l’omogeneizzato. Un ruolo importante lo ha sicuramente una figura che mai compare nella diegesi, quello della madre assente è un perno su cui Eetla ruota incapace di afferrare alcunché, la cifra ectoplasmica della genitrice fa sì che la figlia in un atto di continua evocazione ne assuma le sembianze (d’altronde, se non ho frainteso, perde la verginità con un ex amante della mamma) senza riuscire ad andare fino in fondo, non per niente la pellicola inizia con la giovane che avuta l’opportunità di scappare dall’Estonia decide di non partire per la Svezia, a differenza della madre che li aveva abbandonati tempo prima.

Un’altra questione altrettanto centrale sebbene non venga posta in primo piano è quella della guerra. Lo scenario così lontano e sospeso come quello di un faro fa dimenticare il motivo portante dell’opera (ricordato nei titoli di coda) che è il risultato dell’atmosfera bellica nel Paese e che, giusto per ripetere, ha nella testa della povera Eetla un riverbero di terrore. Il conflitto non si vede mai, però se ne avverte l’alito (la vacca sulle ginocchia è un simbolo di sottomissione) e il rumore (le mitragliate degli aerei), si paventa l’eventualità di uno stupro che poi si realizza: la guerra è un soldato scemotto che non parla. Pure per le conclusioni è opportuno rifarsi alla similitudine con Georgica, giunti alla fine di Somnambuul la completa soddisfazione brancola ancora nella caligine dello spaesamento, abbiamo visto, ed è fondamentale, cosa, come, chi, perché, quando, dove, ecc., sono quesiti che si affastellano, il che non è affatto un aspetto negativo.

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