domenica 26 agosto 2018

In April the Following Year, There Was a Fire

Si autodenuncia fin da subito Sin maysar fon tok ma proi proi (2012), piccolo film thailandese presentato in quello che forse è il miglior Festival europeo (Rotterdam), suggerendoci indirettamente la sua natura, indie, low-budget, “come in quel film di Boonmee?”, sì come Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010). No, non come lui, inevitabilmente, ma per Wichanon Somunjarn il connazionale Weerasethakul sembra essere un modello da cui trarre ispirazione, e, attenzione, non a cui aspirare perché comunque l’opera sotto esame pur avendo tratti riconducibili al cinema del più famoso regista thai vivente (la struttura: duplice; i temi: evocazioni tra passato e presente), ha una propria linea filmica che cova al di sotto di una stasi diffusa una certa quantità di materiale parecchio interessante. Seguendo la regressione geografica e intima del protagonista che si sposta da Bangkok al paesino natale, il film diventa un varco dove flussi mnemonici entrano ed escono dalla diegesi, non vi sono però toni alti né sottolineature folkloristiche (a parte un segmento indipendente che racconta una fiaba locale con mdp puntata sul volto di un villico che pagaia sul fiume), lo scorrere delle cose assume connotati naturali, “veri”, merito soprattutto di Somunjarn che propone un cinema del reale netto e sincero: vita contadina, riprese paesaggistiche, la manutenzione di un cavallo, la festa di un matrimonio. Non c’è finzione dentro In April the Following Year, There Was a Fire.

E invece c’è, eccome se c’è. Somunjarn ad un certo punto alza la traiettoria del suo lavoro, lo carica di altri sensi e al contempo ci gabba, coglie impreparato lo spettatore convinto fino a quel momento di assistere al massimo ad un gradevole esemplare para-etnografico. Non è un movimento seminale che passerà alla storia, d’altronde la scelta di un “film-nel-film” non può più essere un’idea illuminante, ma per i tempi e i modi con cui viene effettuata tale proposta in In April, discreti e poco enfatici, inaspettati ed empatici (la foto d’archivio della mamma col bimbo sulle ginocchia: la forza estetica del cinema si può esplicitare anche con un’ingiallita istantanea, che lo sappiano i tronfi registi maestri di tecnica), l’accettazione si fa immediata anche perché, nel frattanto, Somunjarn svela definitivamente il cuore del film che è fatto di biografia personale e profondità, sicché l’equilibrio che viene a crearsi tra la storia di sé e una storia altra, che è sia una storia recitata (i segmenti con la ragazza sono intelligentemente corrosi da frasi fatte prese da una soap-opera) che una storia agli antipodi, avvalora di non poco la visione complessiva. Quindi ricapitolando: il regista ci mette dentro molto della sua vita, e dunque grazie per la sincerità, parallelamente compie uno studio di ricerca sui confini della rappresentazione che non disdegnerei, e come ciliegina inserisce questioni evidentemente attuali per la Thailandia d’oggi (la disoccupazione e i dissesti politici interni), insomma, siamo sicuri che Sin maysar fon tok ma proi proi sia così piccolo?

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