venerdì 31 agosto 2018

Rome désolée

Nonostante lo preceda di diciassette anni, Rome désolée (1995) si associa a Jaurès (2012) per via di una struttura che Vincent Dieutre pareva avere già ben chiara all’epoca (è il suo debutto): affrontare la realtà esteriore per mezzo di un alfabeto immancabilmente personale, nel senso: io parlo di me, eppure parlo anche di ciò che mi sta intorno, nello specifico una Roma che è crocevia di vite (e di morti) rimembrata dalle parole del regista che valgono le immagini in video, fino a superarle. È un’alchimia specifica di chi utilizza metodi di trasmissione come quelli di Dieutre a farci innamorare ancora una volta del cinema e della sua diversificata accessibilità, nelle memorie del regista, legatissimo all’Italia in quanto per lui terra di profonda ispirazione, si delinea la forza, tutta della settima arte, che accresce il vento di una nostalgia singolare e al contempo plurale, è la veduta di un’epoca dissoluta (plausibilmente gli anni ’80) impastata nell’eroina e nei rapporti sessuali scoperti, sebbene, per paradosso, non si veda niente, solo riprese urbane della Capitale, lacerti anonimi, dettagli inessenziali, eppure, sempre per paradosso, si vede molto perché si superano i fotogrammi, si va al di là della superficie estetica per entrare in contatto diretto con un flusso di ricordi che avvolge a dispetto della nostra completa estraneità. Ecco la forza sopraccitata, il potere di una proiezione che, come dice il lemma in sé, getta qualcosa, emana, irradia.

Autofiction sì, autofiction no Rome désolée è uno spazio di riflessione sulla disputa tra reale e finzione, niente di rivoluzionante ma le modalità con cui Dieutre conduce il discorso meritano attenzione perché meno esplicite e meno immediate di altri studi equipollenti. Il punto è che la componente “vera” dell’opera, o almeno quella che lo sarebbe sulla carta, è potenzialmente “finta”, ovvio che non ci è dato sapere se i racconti della voce narrante, gli episodi e i vari amici citati siano effettivamente dati concreti oppure no, ma anche il solo fatto di poterne dubitare li tinge di un colore divergente dalla realtà, parimenti tutto l’apparato visivo costituito da riprese sul campo è alterato da infiltrazioni televisive, si tratta di rapidi e sfarfallanti ingressi senza audio (la voce di Dieutre copre ogni cosa creando così un effetto destabilizzante) che attestano una strana dimensione, italica oltre che sottilmente fittizia. Il risultato, condensato in un’ora, potrebbe avere le carte in regola per proseguire all’infinito, grandezza a cui Rome désolée tende senza nemmeno saperlo, ma lo sappiamo noi, lo percepiamo, anche solo dall’ultima cartolina sullo schermo dove un mendicante culla colui che ci si immagina essere il figlio. Souvenirs personali dislocanti, la frontalità di una miseria romana, umana, universale.

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