martedì 26 aprile 2011

A mia sorella!

Il fatto che in Italia il nome di Catherine Breillat sia legato a quello di Rocco Siffredi per averlo scelto come attore in due dei suoi film non era il miglior biglietto da visita per chi come me della suddetta autrice non aveva mai visto niente prima di A mia sorella! (2001). Spesso si leggono le solite aggettivazioni su questa regista: è provocatoria, ama lo scandalo, vuole solo far scalpore con qualche turpitudine nemmeno troppo originale. Chi scrive conferma più o meno in blocco tali affermazioni, tuttavia non può fare a meno di sottolineare un sottotesto che, al di là della messinscena disseminata di volute banalità, all’incirca funziona.

Purtroppo non è una sciocchezza passare sopra ad un paio di irrigidimenti che si presentano immediatamente nella storia: le due sorelle si siedono al tavolino con uno sconosciuto, quella grassa (il titolo inglese è Fat Girl!), Anaïs, si ordina un mega gelato, quella magra, Elena, inizia a limonare col tipo. L’intenzione è quella di chiarificare da subito quali siano le prospettive, Anaïs è la pre-adolescente ingombrante che si perde in cantilene da far invidia a Schopenhauer e passa da un paletto all’altro come fossero amanti invisibili, Elena è la sorella che sebbene filiforme riesce ad oscurarla con la sua naturale bellezza, ciononostante quello a cui assistiamo è un’improbabile approccio maschile, che tra l’altro riesce, con una grande cifra irrealistica. Bisogna lavorare fin da subito oltre il mero piano della diegesi, e tale atteggiamento va tenuto anche nel prosieguo dell’opera.

Anzi, la scena più lunga di una pellicola piuttosto breve, necessita di una riflessione che va oltre la rappresentazione della Breillat. Si ascolta un dialogo tra Fernando ed Elena imbevuto di luoghi comuni dove lui è il maschio italico con una lunga carriera amatoria alle spalle mentre lei è una sedicenne ancora vergine che pende ripetutamente dalle sue labbra. In successione si odono tutte le manfrine più subdole e scontate per poterla deflorare (“con te sarà diverso”, “ti insegnerò cos’è l’amore”), e quando Fernando realizza che il foro vaginale, considerato – a torto – la via immediata per arrivare a una donna non è praticabile, opta per quello anale (“non ti preoccupare lo fanno tutte”) mentre Anaïs è lì a due passi che sente tutto. L’abuso di siffatti cliché rende questo segmento filmico quasi fastidioso per la sua arida superficialità e innaturalezza nello svolgimento, il quale sottende però chiaramente una stigmatizzazione del comportamento maschile nei confronti di una personalità vulnerabile a lui assoggettata. Insomma, è nuovamente necessario distaccarsi dalle immagini e concentrarci su ciò che c’è dietro.
In un quadro solondziano, ma se il film avesse avuto un pizzico in più di amara ironia come è d’uso nel cinema di Solondz sarebbe stato meglio, la figura di Anaïs, sempre denudata di fronte alla mdp per renderci partecipi della sua poca grazia, subisce letteralmente l’amore estivo di sua sorella tanto da dire che la prima volta sarà con un uomo che non ama, e i suoi singhiozzi con la coppia che fa sesso in secondo piano sono l’immagine più dolente dell’opera.

Ma essendo questa una storia tra due “innamorati” si obbliga automaticamente a mostrare anche il momento divisore che separa Fernando e Elena, ed è una spiegazione ben poco plausibile dove il dono di un anello provoca le ire della mamma di casa. Senza soffermarci sulle forzate motivazioni del rientro in Francia, la famiglia senza padre, gli uomini sono praticamente estromessi da tutta la pellicola, si avvia su un’autostrada in cui la macchina contenente le tre donne sembra dover essere schiacciata da un istante all’altro da enormi camion attraverso una sequenza gestita con maestria dalla regista che crea una cappa tensiogena frantumata dall’epilogo inaspettatamente brutale ed eccessivo ma forse proprio per questo ancora più esplicativo: l’età del disincanto giunge nella boscaglia con il corpo pesante circondato da foglie secche (“non farmi del male…”), fermo immagine sul viso di Anaïs, quella non è più una bambina, è diventata una donna.

mercoledì 20 aprile 2011

Visions of Suffering

Proviamo a ricomporre qualcosa: c’è un uomo tormentato da strani (eufemismo) incubi durante le nottate di pioggia. Un tecnico del telefono gli dice di stare attento ai vampiri. Alcune losche figure in giardino spiano l’uomo dentro casa. La forse ragazza di quest’ultimo si lascia andare un po’ troppo con le droghe aprendo un varco col mondo delle tenebre.

Frammenti di una trama che non esiste in Visions of Suffering (2006), opera seconda di Iskanov e considerabile come totale prosecuzione della prima. Se Nails (2003) attraverso rustiche scariche estetiche ci presentava un quadro ben poco incoraggiante dell’allucinata follia di un mal di testa, 3 anni dopo viene riproposta la medesima griglia visiva con una variante che pesa di brutto: la durata, per l’occasione raddoppiata, e che quindi porta i minuti a più di 120, con buona pace della vostra razionalità che verrà asfaltata da un visionario furore tellurico e della vostra pazienza, qualità che con Iskanov dovrete mettere a dura prova.

Ovviamente il budget è sempre low e il digitale un po’ scadente regna incontrastato. Ciò che invece può essere annotato come high è l’inventiva che il regista russo mette nella sua creazione; l’Idea sembra non esserci, piuttosto si procede per lampi, flash, nei quali si mescolano espedienti diversi che danno vita a risultati altalenanti: il sonoro è la componente tecnica che questo autore sa manipolare meglio, invadente e petulante, certo, ma se l’ossessione è ciò che si voleva trasmettere allora Iskanov ha ricreato il mood adatto, inoltre le parentesi oniriche filtrate con colori ambra convincono e inquietano tanto da poter essere paragonate alle splendide opere del pittore polacco Zdzisław Beksiński, peccato che tali sequenze siano in sostanza soltanto due e che il resto della pellicola debba fare i conti con scelte infelici come l’uso di una computer grafica antidiluviana che malissimo si lega con gli aspetti reali della diegesi. Diciamo che in un corto o in un mediometraggio tale utilizzo non aggraverebbe troppo il risultato finale, ma in un film di due ore e passa è difficile non metterlo nella lista dei punti di debolezza.
Un altro aspetto da considerare sono gli attori, visto che nel lavoro precedente ce n’era praticamente soltanto uno più una donna che compariva alla fine (ed entrambi sono nuovamente presenti), qui ne vengono proposti un paio di più, ma non con grandi risultati. Fagocitati dall’atmosfera psichedelica, i vari personaggi si confondono nell’immaginario spettatoriale, e così sorgono interrogativi sul prete pasticcomane nel night club, dubbi su un bruto che riempie di botte una poveretta, ansie nello scorgere il vicino di casa Zio Tibia che si automutila mangiandosi le dita (best character and best scene) e risatine stile Nelson vedendo dei cervelloni-parassiti come nei sci-fi ante litteram.

Difficile pensare che in giro un film così possa piacere a meno di non essere dei weird-addicted che si esaltano per le stranezze più… strane.

sabato 16 aprile 2011

Twentynine Palms

A mio modo di vedere Twentynine Palms (2003) è un film che diverge da L’età inquieta (1997) e da L’umanità (1999).
Lo è prima di tutto nel luogo in cui vive perché abbandonata la provincia francese Dumont pone il suo occhio in un deserto, quello californiano, in cui non c’è nulla, almeno a prima vista. Lo è poi nelle intenzioni che si allontanano dalle indagini socio-teologiche del passato autorialmente filtrate, per approdare definitivamente nel cielo oscuro dell’essai, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporta. Lo è infine per la storia che presenta, una storia di amore adulto fra un uomo e una donna, un David e una Katja (la bellezza spettrale Yekaterina Golubeva, compagna di Sharunas Bartas al quale questo film sono sicuro sarà piaciuto molto) pellegrini nell’arida natura, nel deserto, in un Eden che deve venire o che forse è già passato.

È sintomatico il fatto che alcune delle recensioni consultabili in rete citino le parole del regista francese relative alla sua opera. Questo perché al di là delle innumerevoli critiche apportabili a 29 Palms, il disorientamento è l’effetto principe che pervade a fine visione, e siccome il sottoscritto si è smarrito al pari dei protagonisti userò anch’io il Dumont-pensiero come bussola:

Questo è un film che è nato e si è sviluppato intorno ad una sensazione
Il film si è costruito scoprendo cose, accumulando emozioni.
Un film in cui soggetto e protagonisti non hanno importanza, quello che è importante è lo sfondo.
Nel film ho cercato di neutralizzare l’importanza di tutto (la storia, i personaggi, le psicologie) per concentrare l’attenzione sull’atmosfera.

A sentire così il film sembrerebbe soltanto un mero esercizio di stile, e in effetti sfido chiunque a dimostrare il contrario. Ma ci sono alcuni termini negli interventi qui sopra che mi danno da pensare. Se il progetto si è sviluppato partendo da una sensazione credo sia inevitabile che ne venga effettuata una riproposizione, e ciò che ho percepito, che ho sentito, non è mai stato amore, mai. Piuttosto inquietudine, malessere relazionale, Adamo ed Eva post-mela. Il film non ha davvero niente da raccontare in superficie e probabilmente neanche sotto, il deserto che segna drammaticamente l’assenza di vita è lo specchio di questa secca relazione dove i due scopano come animali, da dietro, litigano, si abbracciano, sono lontani: parlano lingue diverse.
Le sensazioni si avvertono, e non sono positive.

Eppure Dumont ci dice che David e Katja non sono importanti, non è importante chi sono e non è importante che cosa fanno. Credo che Dumont non dica la verità. Il fondale è metafora, paragone di un rapporto, senza il deserto non ci potrebbe essere questa coppia e viceversa, e quindi non esisterebbe nemmeno il film in sé. Il regista potrà spingere quanto vuole il pedale dell’astrazione ma una volta che la mdp si cala nella realtà inizia a rap-presentare, esibisce: il cinema non può essere sincero ma può mostrarci la sincerità, qui è difficile credere a questi due amanti, ed è per questo che il film non è piaciuto, ma ce li mostra in una condizione archetipale che guarda caso è anche la stessa dell’ambiente che li circonda. Archetipi sì, stereotipi anche. Lui amorevole, protettivo, maschio, guidatore (del fuoristrada e della relazione), lei lunatica, sfuggente, remissiva, arrendevole. Dietro l’immobilità registica, dietro il nulla raccontato, e oltre il racconto annullato, per forza di cose Dumont si trova comunque a raccontare qualcosa; pur stratificando emozioni, visioni, sensazioni, il cinema riconduce sempre all’imbuto della concretezza: c’è L’Uomo e c’è La Donna, viaggiano nel deserto e si avverte che prima o poi accadranno delle cose brutte.
Quindi non è solo atmosfera, quindi non c’è solo lo sfondo. Certo è complicato e faticoso capirlo, e forse proprio per questo ancora più bello.

Eggià, lo spettatore paziente che ha dato peso a quest’aria di attesa troverà nel finale il tanto aspettato momento catartico che data la stasi regnante fino a quel momento risulterà ancora più devastante.
A questo punto è utile rifarsi ancora alle parole del regista:

C’è quel finale, perché ad un certo punto bisogna finire. Lo stupro rappresenta proprio la volontà di prendere di peso i personaggi e di immergerli nella violenza, per finire.

E poi ancora:

La prima intenzione era di finire il film con la scena dello stupro. Poi ho aggiunto quel finale per fare un “omaggio”, un “pensiero”, al cinema americano, in particolare al cinema horror americano, che mi sono dovuto sorbire per tanti anni e che ancora continuano a propinarci. Quasi come uno sfottò, insomma.

Sarà, ma io continuo a non credergli e anzi porto avanti il mio pensiero che vede in questo duo il ritratto di una coppia primigenia che tra la banalità della vita (un gelato al tavolino) e quella del male (lo stupro) si distrugge, si auto-distrugge.
Avendo io la fissa di prendere appunti durante la visione di un film, rileggendoli ho notato che la maggior parte delle mie annotazioni riguardavano Katja:

-lei che ride e piange
-lei che sente i tuoni lontani
-lei che cammina scalza
-lei che accarezza i cani

Siamo in presenza di una storia femmineo-centrica? Non saprei dire, ma ciononostante quando i teppisti li aggrediscono nel nulla, appare strano che scelgano come oggetto d’attenzione il fondoschiena di David piuttosto che il corpo della ragazza. Si innesta perciò una sorta di rovesciamento dei ruoli fino a quel momento rappresentati. Tra i due il più debole non è Katja ma David e lo dimostrerà con l’irrazionale azione conclusiva. Quindi ok la sottile critica al cinema americano al quale mi accodo senza indugi, ma per chi scrive il tutto non si esaurisce qua. Il finale vede da una prospettiva artistica degli eventi che succedono nel mondo reale, e checché ne dica lo stesso Dumont lui una storia l’ha raccontata eccome.
Allora, forse, questo film non diverge poi troppo dai due precedenti perché a ben vedere Dumont delle indagini delle investigazioni e delle ispezioni non interessa granché, lui ci fa vedere la rappresentazione della realtà, e non la realtà vera e propria perché il cinema non può farlo, ed una realtà fatta di odio, amore, paura, violenza e soprattutto noia.

Siamo tutti soli in un deserto, e abbiamo paura.

Interventi presi da qui.

domenica 10 aprile 2011

Nymph

È ormai evidente che il percorso filmico di Ratanaruang si sia via via distaccato dalla concretezza riguardante i primi lavori per approdare in territori onirici, sospesi, metafisici. Sempre meno storie ad ampio respiro ottenute grazie a procedimenti di intersecazione (il dramma dentro la commedia a sua volta dentro il crime), sempre più un restringimento del materiale, anche umano, trattato, segnando così un passaggio che va dalla materialità degli omicidi/traffici/mafiosetti thailandesi, all’astrazione completa attuata con una decontestualizzazione della cornice scenica che mai come in una labirintica foresta trova il significato di non-luogo.
Inestricabilmente legato a Ploy (2007), questo film ne segna la prosecuzione immediata e la naturale implementazione dei temi precedentemente toccati. Per Pen-Ek non è più una coppia in crisi, bensì una coppia che è già scoppiata, e riprendendo in esame il precedente film dove una ragazzina rompeva l’equilibrio precario dei due, qui, tale ruolo, spetta invece alla foresta che come un essere mastodontico inghiotte le anime erranti che la percorrono.

Ratanaruang addensa in quest’opera significati originari come mai aveva fatto prima, depositando segni dalla stratificata interpretazione. Un uccello moribondo come un cattivo presagio, l’albero, dalle sinuose protuberanze femminili ma anche dall’imponente morfologia fallica, un totem a cui bisogna chiedere scusa, un dio atavico che silenzioso osserva e forse punisce, morire e rinascere dalla terra, radici vontrieriani adibite a letto nuziale.
Il nuovo ermetismo del regista thai unito al vecchio vizietto di sconfinare spesso e volentieri nel sogno (il ritorno imprevisto dell’uomo), rendono Nymph argomento su cui non riesco a scrivere più di tanto. Cercare di ricondurre l’ora e mezza di girato ad un significato logico non è un’operazione vantaggiosa né per noi, che difficilmente ne verremmo a capo, né per il film stesso che procede più per suggestioni visive (e sonore!) che per contenuti solidi poiché al primo sguardo – ma anche al secondo – ciò a cui abbiamo assistito altro non è che una variazione sui problemi di coppia.
Il prologo e la locandina americana (credo) sono indimenticabili, il resto lascia dei dubbi.

sabato 9 aprile 2011

Impatto imminente


Tra poco, a Cannes.

mercoledì 6 aprile 2011

Vacas

Dopo una serie ragguardevole di cortometraggi Julio Medem esordisce sul grande schermo con questo Vacas (1992), pellicola che nonostante segni l’esordio nel lungometraggio ci mostra sorprendentemente come il regista spagnolo fosse già in possesso di valide e molteplice idee, suggerendone persino una sovrabbondanza.

Di tutto ciò che si può proferire su Medem, mi pare che non ci possa piovere se dico che il suo cinema sia ad alto tasso di riconoscibilità, il che, a prescindere dalla sostanza che forma e impregna le varie pellicole, è un elemento che va sottolineato poiché è indicatore di un attenzione (e perché no, anche di un amore) verso il proprio lavoro in modo da creare un discorso sempre aderente su se stesso, poi se nel caso di Medem quel continuo tracimare di concetti porta un po’ di confusione è un altro discorso, ma il fatto che potrei capire già al secondo sguardo quando un film è suo oppure no mi sembra un ottimo punto di partenza.

Nello specifico gli stilemi rintracciabili anche in Cows sono i seguenti: innanzi tutto il marchio di fabbrica pressoché inconfondibile è quello che vede un contesto più o meno realistico (e qui lo è molto, come mai nella carriera medemiana) portato con maestria su un piano sempre più immaginifico, a tratti connotato a mo’ di fiaba – lo spaventapasseri, l’ambientazione rurale, la gara dei ceppi degna di un racconto dei fratelli Grimm – ma sempre accompagnato da un sottofondo storico, concreto, assolutamente crudo (il carro di cadaveri nudi che attraversa il bosco) con la Guerra che fa da sfondo praticamente a tutta l’epopea della famiglia.

Un altro tratto distintivo, e forse il vero punto di interesse per Medem, è l’amore. Sai che novità direte voi, eppure l’interpretazione che il regista dà del sentimento ha una sincerità inconfondibile scevra di patetismi ma allo stesso tempo traboccante di eros, in un magico equilibrio. L’amore per l’autore è conteso (Tierra,1996), sofferto (Gli amanti del Circolo Polare, 1998), labirintico (Lucía y el sexo, 2001), e tali prerogative si presentano anche in Vacas laddove è la relazione fra due ragazzi che pian piano prende il sopravvento all’interno della narrazione. Lo stile del racconto così “fluviale” non mette, a volte, nelle condizioni di recepire quelle emozioni che si vuole far scaturire, tuttavia le modalità con cui la storia è impostata risultano talmente originali da meritare uno sguardo.

Infine la caratteristica determinante ed anche la più rischiosa ai fini della fruizione spettatoriale è la tendenza a moltiplicare le componenti filmiche. Medem sdoppia i personaggi facendoli interpretare dai medesimi attori in un gioco che perde contatto con la realtà, Medem ripropone strutturalmente l’escamotage dell’occhio che guarda in un buco, che sia il buco del culo di una vacca o l’obiettivo di una macchina fotografica ante litteram, Medem fa e disfa a suo piacimento arrivando a costruire il quasi solito film squinternato in cui continua a mancare a qualcosa. Dico quasi perché essendo il primo la tendenza a raddoppiare i vari elementi è depotenziata da un comprensibile timore di osare troppo, il che dà un tono sicuramente più lineare alla pellicola ma non altrettanto affascinante come avverrà in futuro.
Ad ogni modo l’epilogo è notevolissimo, talmente bello da mitigare tutto quello che c’è prima e con ogni probabilità in grado di farmi conservare un buon ricordo del film.

lunedì 4 aprile 2011

UH-UH-UH-UH

Ovvero storie di hype in cui tuffarsi a bomba.

Immortals di Tarsem Singh. Uscita prevista: novembre 2011.

The Tall Man di Pascal Laugier. Uscita prevista: boh.

Mekong Hotel di Apichatpong Weerasethakul. Uscita prevista: ri-boh.

The Tree of Life di Terence Malick. Uscita prevista: 27 maggio 2011.

Brave di Mark Andrews. Uscita prevista 2012 (Maya permettendo).

Pa negre (Black Bread) di Agustí Villaronga. Uscita prevista: è già uscito in Spagna.

Magi i luften (Love Is In The Air) di Simon Staho. Uscita prevista: 23 giugno 2011.

domenica 3 aprile 2011

The Afterman

Film belga del 1985 totalmente sconosciuto al grande pubblico, e che probabilmente sarebbe rimasto tale se la Zeno Pictures non lo avesse rieditato per la prima volta [1] in dvd in onore del venticinquesimo anniversario dalla data di uscita. Poco si sa del regista Rob Van Eyck, se non che la sua “fama” sia proprio legata a questa pellicola che, tra l’altro, pare essere il primo capitolo di una trilogia, ma visto che le cose non sono molto chiare in merito a questo trittico il vostro Eraserhead cercherà di far luce sulla vicenda.

Entrando nello specifico, The Afterman, il cui titolo avrebbe potuto tranquillamente essere The Aftermankind, racconta di un uomo che per molto tempo sembra aver vissuto all’interno di un rifugio atomico dove si accontentava di piccole cose, tipo mangiare vermi e fare sesso con il corpo ibernato di una donna, ma a causa di un problema interno la base implode su stessa e l’uomo senza nome si trova a vagare in un mondo post-umano, appunto.

Sperando di non incappare in una sovrainterpretazione, il procedimento con cui il film si svela ha continue forme archetipiche poiché, tanto per cominciare, l’intera opera è priva di dialoghi e l’assenza dialogica trasporta ad una condizione dell’uomo vicina a quella primitiva fatta di istinto e bestialità. Paradigmatico il fatto che quando il protagonista incontra un altro gruppo di suoi simili con i quali ha inizialmente atteggiamenti di fraternità, essi per tutta risposta se lo inculano a turno. Tramite una scena così di impatto il regista vuole spiegare quanto la nostra razza abbia toccato il fondo, ed è un’analisi che tange un’altra nicchia di umanità come la religione, dove in un monastero i sacerdoti sfruttano delle ragazze e strappano cuori come se fossero bigliettini dal panificio, a testimonianza di una civiltà completamente allo sbando dove il sesso e il nutrimento per sopravvivere (vedremo pezzi di carne cruda strappati a morsi) scavalcano qualunque sentimento plausibilmente situato nel nostro organo vitale.

Purtroppo, ed un purtroppo di proporzioni ciclopiche, The Afterman che a un livello concettuale potrebbe avere dell’humus su cui ragionare, crolla impietosamente sul piano formale. Al di là del budget ridotto e delle conseguenti ambientazioni che nulla hanno di post-atomico (teoricamente ci sarebbe la possibilità che il tempo passato dall’attacco nucleare sia molto, tuttavia vedere prati rigogliosi, contadini che seminano la terra, e cieli azzurri stona di parecchio), al di là di questo, ci troviamo di fronte ad un film che si inserisce nella categoria di genere e qui vi si impantana. L’ostentato voyeurismo con cui Van Eyck conduce il lungometraggio lo porta in territori molto vicini al trash italico di, con tutto il rispetto, un Massaccesi o un Polselli; l’insistenza sul sesso, sulla nudità, sul corpo, che ha l’apice di idiozia nella scena della piscina, spesso – praticamente sempre – superfluo nel racconto e in odore (/puzza) di forzatura, ammorba l’opera in tutto il suo essere. Si può passare sopra alle scenografie, alle goffe azzuffate e agli effetti ben poco speciali, ma non ad un compiacimento così palese che rende aridissima una storia con del potenziale.

Il finale idilliaco che ricorda quello di The Road (2009) oltre che per i significati (la sopravvivenza della speranza con la nascita di un figlio) anche per l’ambientazione marina laddove il mare sembra essere sempre nel genere post-apocalittico la meta del viaggio – ma le assonanze col film di Hillcoat sono rinvenibile anche nella rappresentazione dell’archetipo (!) dell’amore fra l’uomo e la donna, due cerini in un mondo di cenere ricordate? -, sancisce la chiusura di quello che è semplicisticamente un b-movie con qualche piccolo vezzo autoriale (il mutismo). Ciò che resta è “un fascino del brutto” che nonostante le cadute di stile vi farà arrivare in fondo, non so con quanto soddisfazione però.
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[1] Pare che fino a quel momento circolassero solo copie in vhs e raramente oltre i confini del Belgio.