lunedì 30 gennaio 2017

Boatman

Girato a ventinove anni in completa indipendenza, Boatman (1993) di Gianfranco Rosi è un esempio di discreto cinema etnografico, più che altro ciò che suscita ammirazione è lo spirito avventuriero che lo principia, la curiosità di un italiano benestante che arrivò a Benares quasi per caso e dove vi ritornò più volte intessendo legami tramutati in storie da raccontare, come quella del barcaiolo Gopal o dei due italiani, un romano e un genovese, delle cui vite, soprattutto quelle future, sarebbe interessante venire a conoscenza. Ma Boatman non ha tempo per l’approfondimento umanistico, adagiato sul tempo di un’escursione in canoa sul Gange, e quindi aderente ad una sorta di realismo sebbene rimanga evidente il fatto che le riprese si siano svolte in più giorni, il lavoro d’esordio del regista nato in Eritrea si fa POV, testimonianza oculare a cui i vari personaggi si rivolgono annullando il filtro della macchina da presa. C’è Rosi su quel guscio di noce che scivola sulle acque del Fiume Sacro sfiorando carcasse galleggianti dalle ossa ormai porose e crisalidi con resti incancreniti di quella che un tempo era una persona, e l’esserci di Rosi diventa parallelamente il nostro esserci, ergo: abbiamo una piccola immersione, un’apnea in un mondo che, implementato dal bianco e nero granuloso, appare lontano e magnetico al contempo, in un tilt di fascino e repulsione che non lascia impassibili.

Per provare a comprendere il tasso di “immaturità” che caratterizza Boatman basta scorrere il curriculum di Rosi per accorgersi che il film successivo verrà girato più di un decennio dopo dall’altra parte del globo terracqueo (Below Sea Level, 2008), eppure nonostante le evidenti imperfezioni ed improvvisazioni accetto molto più di buon grado un cinema come questo che l’autorialismo sterile di Sacro GRA (2013). Boatman, pur non raggiungendo nemmeno i sessanta minuti di lunghezza, con il suo essere spugna sa assorbire ciò che lo circonda senza estetismi né elucubrazioni di sorta, è una visione del genere che nella semplicità di uno sguardo sulla vita e sulla morte può riconciliare l’esperienza spettatoriale con la dimensione dell’originalità e della purezza, è sufficiente una mandria di bambini nudi che gioca nel bel mezzo del Gange a divorarsi tutta la finzione che ammanta la settima arte.

sabato 28 gennaio 2017

Skin

Il curriculum attoriale di Jordana Spiro è così, ecco, sì, insomma, cioè, diciamo: imbarazzante. Questa tizia americana nata nel ’77 a Manhattan ha recitato in uno stuolo di serie televisive di basso rango che visto un tale lignaggio faccio fatica ad elencare, ma stoicamente ci provo: Buffy, CSI e Dexter, mentre per il grande schermo ha preso parte in ruoli minori a filmetti che forse non hanno avuto nemmeno una distribuzione nostrana, il che è tutto dire. Dunque è innegabile che sul versante interpretativo la Spiro abbia abbracciato prodotti commerciali che qui non troveranno mai asilo, ora, fatta questa constatazione sarebbe bello rovesciare l’evidenza asserendo che la regista dentro di sé, là dove dovrebbe albergare la coscienza artistica di ogni essere umano che decide di fare cinema, possegga una piccola nicchia di resistenza atta a fronteggiare il mondo di deiezioni con cui si è presumibilmente arricchita. Ahimè (nessun ahi, chissenefrega in fondo!) non si può dire nulla di ciò, quello che invece è lecito affermare è che Skin (2012), pur essendo un corto radente il nulla, è sicuramente meno nullità rispetto ad un qualsiasi Beverly Hills, 90210 (altra deplorevole tappa della Spiro).

Il salvabile risiede in una generale attenzione formale. Con un mood da tipico cinema pseudo-indie americano proposto puntualmente al Sundance, Skin ci narra nel breve spazio che si ritaglia di un’alterità a stelle e strisce lontana dalla bellezza plastificata di Hollywood, il ragazzino protagonista ha infatti la presenza scenica di un suo coetaneo uscito da Ratcatcher (1999) o da qualche film di Dumont, una faccia su cui si legge una storia quindi, la celeberrima foratura dello schermo (più o meno). Ma di certo non può esserci solo il casting in un film, e l’apporto della Spiro, a parte una suggestiva inquadratura fluviale, non pare riscontrarsi marcatamente in altri ambiti. Sì, il centro del corto sarebbe un’altra variazione sul tema dell’Eros vs. Thanatos, tuttavia la concretizzazione si dà in uno schema talmente intelligibile che non mi va nemmeno di riparlarne. 
Ricapitolando: zzz zzz.

lunedì 23 gennaio 2017

We Are the Flesh

Ci sono molte possibilità che Tenemos la carne (2016) possa diventare un cult sotterraneo pronto a gonfiarsi di bocca in bocca, di blogger in blogger, e le ragioni non sono tanto rinvenibili nella qualità artistica che lo permea perché a mio modo di vedere il cinema è un’altra cosa, quanto nell’anarchia in cui Emiliano Rocha Minter scaraventa la sua opera di debutto (transitata anche in Italia al Milano Film Festival) e all’intraprendenza mostrata nel fottersene di quella razionalità inchiodante per dare sfogo ad un campionario di pulsioni che ci portano sempre lì: alla fica e al cazzo, e alla necessità di raggiungere quell’ultimo definitivo orgasmo estasiante (il luciferino padrone di “casa” eiacula e poi muore), nel mezzo, cioè nella vita: il delirio, succede di tutto per Rocha: rapporti incestuosi, mestruo schizzato in bocca, resurrezioni, orge, al regista messicano classe ’90 di sicuro non piace avere filtri e quello che vuole far vedere te lo sbatte nelle pupille con tutta una messa in scena low cost che però sa perturbare, oculata è infatti l’attenzione al reparto cromatico e a quello sonoro che unendosi creano una congiunzione autistico-ipnotica capace di proiettare nell’astrazione imperante, il sottotitolo è: astenersi puristi della narrazione o seguaci del rigoroso autorialismo, qua vige il caos (“ricorda che il caso è il peggior criminale che abbia mai camminato sulla terra”), il nonsense, lo sfoggio di una sessualità dissoluta.
Come un You and the Night (2013) senza freni inibitori, come un Noé che ha esagerato con gli acidi, ad Emiliano Rocha, la cui fonte di ispirazione principale è Zulawski (e si vede), è stato attribuito il merito di aver fatto un film “corporale”, d’altronde un titolo del genere e la costante presenza di attori nudi sul set potrebbe far pensare così, ma la corporalità nel cinema è modulata da frequenze che non si sposano granché con una tizia che spompina – con fallo finto – il fratello (basta vedere un film di Philippe Grandieux a caso per capire), allora è più ammissibile parlare di un’illustrazione del corpo all’interno dello spazio-cinema, e da questa angolazione We Are the Flesh suscita fascinazione perché è in grado con soltanto tre interpreti e un’abitazione ristrutturata a mo’ di grotta-ventre a frullare robe anche altissime, intanto al connubio vita-morte non si sfugge mai, le quali comunque si subordinano alla voluttuosità della carne, la carnalità, intesa come stato d’eccitazione febbrile, quasi animalesco, è la vera ed unica protagonista dell’opera, e la regressione razionale a cui assistiamo è pari al turbine psico-lussurioso in cui rinculano i personaggi del film, e più che intendere la caverna come il grembo di una donna, questo spazio chiuso e claustrofobico è una rappresentazione celebrale, è un cranio visto da dentro dove l’Es scatena i propri incontrollabili stimoli, e nonostante quanto proposto possa irritare lo spettatore (una recensione negativa su IMDb lo definisce così: “In my opinion it’s both shocking and boring, really. Shockingly boring, too” [link]), va altresì riconosciuto il suo essere anomalia del sistema, perché essere fastidiosi non è sempre un attributo deleterio. Tra l’altro gran bel finale che ricorda parecchio quello di House of Tolerance (2011), altro mind-movie ma più elegante, e che potrebbe far ricredere sia i suoi detrattori che i suoi sostenitori, categorie di cui, per la cronaca, faccio parte senza riuscire a trovare un punto d’equilibrio.

Grazie a Dries che tempo fa sottopose alla mia attenzione Dentro (2013), primo corto di Rocha Minter che sicuramente sul versante estetico non c’entra nulla con Tenemos la carne, su quello semantico, uhm, forse ci sono dei piccoli collegamenti.

venerdì 20 gennaio 2017

Mademoiselle

Il film che chiude l’ufficiosa trilogia amorosa di Park Chan-wook si attesta su livelli accettabili perché se pensiamo a Thirst (2009), e pensiamo occhei dài, e a Stoker (2013), qui forse un po’ meno bene, il ricordo che ci portiamo dentro è di benevolenza verso il regista sudcoreano (ma saranno ancora le scorie esaltanti della visione post-adolescenziale di Oldboy [2003]?) il quale continua ad affermare la sua idea di un cinema che si configura nel mainstream ma sempre in una posizione abbastanza liminare, perché Park pur essendo completamente dentro gli ingranaggi tecnici e strutturali che sottendono la produzione di un’opera da multiplex, ne esce fuori ogni volta con un decoro che lo distingue dalla massificazione, e il merito principale lo si rintraccia in un’estetica d’altissima fattura, patinata, plastificata, iper-artefatta, comunque “fatta bene” per noi ignari delle questioni legate alle maestranze specifiche, e il risultato formale di Ah-ga-ssi (2016) più che sotto, è negli occhi di tutti, almeno di chi l’ha visto, e di certo ci sono vari meriti da spartire, in primis a Chan-wook che ha raggiunto un’elevata qualità visiva unendo al digitale un accessorio tradizionale come riportato qui: I still feel that film is superior to digital, and if I could have my choice, I’d prefer to shoot on film. But one of the things we could do while shooting on digital was to afford the use of an anamorphic lens. I have a special affection for films shot with old anamorphic lenses, plus my cinematographer had an interest in combining an old-style lens with a new digital camera. The look that it creates is quite unique, and it seemed appropriate to the period setting of the film, e, ovviamente, complimenti al sempre fedele Chung Chung-hoon che accompagna Park come direttore della fotografia da quasi quindici anni, ulteriore menzione speciale all’art design ed alla predisposizione degli interni della villa, così come ai costumisti e a tutto il resto dello staff, insomma la grossa macchina fruttifera parkiana produce ciò che il suo boss vuole: commerciabilità con striature autoriali.

Cotanta beltà medica una scrittura che non tiene il passo al proprio contenitore? Mah... non è da escludere, essendo la base di partenza un romanzetto da bancarella (lo dico senza averlo letto ma non credo che Sarah Waters si possa arrabbiare viste le inaspettate royalities in won sudcoreani), l’adattamento cinematografico pur stravolgendo la location e cambiando alcuni passaggi narrativi è sempre orientato ad affrescare una liaison saffica in odore di turpitudine. Da tale angolazione il film è davvero semplice – anche eccessivamente – e cerca sussulti in alcuni twist e anti-twist che se non fossero sorretti dalla summenzionata tecnica richiamerebbero a sé echi soapoperistici, la pretta sinossi ci dice questo in modo chiaro e ben poco stimolante, poi noi che siamo bravi ci vediamo anche altre cose come l’amore del regista per Hitchcock (è risaputa la sua ammirazione per La donna che visse due volte, 1958 [1]) che si traduce in una costante duplicità: le prime due porzioni del film sono l’una il controcampo dell’altra (inoltre le due donne, come sancisce il simmetrico e andersoniano finale, sono due facce della stessa moneta), e vediamo anche svariati elementi che ravvivano e decentrano la traccia sentimentale, su tutti l’erotismo screziato da una latente perversione che non riguarda tanto i contenuti sessuali semi-espliciti quanto le rivelazioni sui singoli personaggi nel dispiegarsi tramico (il reading osé a firma dello zio maniaco è una bella trovata), esagerando potrebbe esserci spazio anche per una veduta storico-culturale (nella diatriba Corea vs. Giappone ho avvertito qualche rimando all’attualità) oltre che delle considerazioni sullo status del “maschio” che non ne esce a testa alta, tuttavia è meglio non allargare troppo l’orizzonte interpretativo visto che quanto c’è da capire risiede nell’aspetto visivo ed ogni correlato accessorio (dimenticavo: ironia aggraziata e accenti weird: la piovra!) rende Ah-ga-ssi niente più che un oggetto di raffinata evasione.
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[1] In Mademoiselle è presente la rapida ripresa frontale di un hotel con all’interno Lady Hideko ed il Conte che ricorda molto l’albergo in cui si ritrovano James Stewart e Kim Novak in Vertigo.

mercoledì 18 gennaio 2017

Erdő

Corsetta nel bosco con delitto.

Anonimo cortometraggio ungherese che nel 2011 concorse addirittura per l’Orso d’Oro di categoria a Berlino, competizione che fu poi vinta da Park Chan-wook con Paranmanjang (2011). Anonimo perché Erdő, scritto e diretto da György Mór Kárpáti che tre anni dopo porterà a Cannes Provincia (2014), altro lavoro dall’ambientazione agreste, si mimetizza docilmente in una banale finestra di stampo mistery dove mai come in questo caso si comprende il disegno del regista: tranciare ogni nesso tramico per far affiorare qualche indizio, sbirciare, supporre. Messo così l’impianto non sarebbe neanche male, d’altronde sono un fervente sostenitore di una sovversione di quei canoni narrativi che metastatizzano gran parte del cinema che ci accerchia, e quindi merito a Kárpáti per il tentativo, le lodi però si arrestano subito: cioè, troppa l’orizzontalità dentro Erdő, una piccola grande noia vela questa manciata di minuti. L’eventuale potere suggestionante, ovvero ciò che il regista avrebbe voluto porre nel nucleo filmico poiché egli stesso incontrando un tizio in un bosco ebbe la sensazione di trovarsi al cospetto di un assassino, non agisce minimamente sullo spettatore restando un flebile proposito. Non emerge l’introiezione della morte da parte del ragazzo, né la si avverte oltre lo schermo.

Nella sua breve parte centrale Erdő si occupa di riprendere uno strano gioco condotto da un gruppo di ragazzi i quali, dopo essersi appiccicati sulla fronte un foglio con un numero scritto sopra, scappano in un bosco braccati non si sa bene da cosa. A fine visione ho pensato per un attimo che Kárpáti fosse stato meno scontato di quanto mi era sembrato in prima battuta, con un’interpretazione ardita è parso quasi che i giovani numerati raggruppati in una sorta di comune potessero rappresentare un campo di concentramento segnato dalle uccisioni dei propri compagni, ma tale visione regge ben poco anche perché non pare che il killer faccia parte della comitiva così come la sua vittima, e quindi non si può che fare ritorno all’idea manchevole di un omicidio occasionale senza alcuna astrazione e di un’esile rappresentazione delle conseguenze emotive riguardanti il testimone oculare.

lunedì 16 gennaio 2017

Thy Womb

Captive (2012) era in tutto e per tutto un film di Mendoza nei tratti estetici, in aggiunta il regista filippino aveva tentato una sorta di operazione storicizzante con riferimenti a fatti realmente accaduti, il risultato non era stato granché esaltante poiché la sua caratteristica principe, ovvero quel catturare la realtà, veniva un po’ depotenziato da uno scheletro finzionale che si accartocciava su una narrazione sottotono, praticamente un susseguirsi di situazioni troppo simili le une alle altre. Nello stesso anno però il Signor Brillante si presentava in Laguna con un lavoro a lui più consono, Thy Womb (2012) è infatti un ritorno nella miseria filippina, un luogo estremamente concreto, vivo, l’habitat naturale del cinema mendoziano. Precisando subito che Thy Womb non è quel tipo di film che incendia l’animo dei cinefili doc, il che, ragionando su Mendoza alla luce della sua produzione recente e non, mi fa pensare che qui si parla di una filmografia prescindibile, ad esclusione di Kinatay (2009) non c’è ancora un titolo degno di essere ricordato, dicevo: sottolineando i limiti dell’opera sotto esame, c’è da rimarcare una solidità maggiore del coetaneo Captive e il motivo lo si può trovare nell’equilibrio che si viene a creare tra dramma sociale e dramma personale.

Questi punti sono i cardini che permettono a Thy Womb di muoversi disegnando un raggio che sa attirare l’attenzione della nostra etica occidentale. Mendoza bazzica i territori che furono di Foster Child (2007) realizzando un ipotetico prequel, adesso è il bisogno di una genitorialità a mettere in moto meccanismi umani e contestualmente collettivi. Perché è in questo che Mendoza può essere definito “bravo”, se si fosse concentrato solo sulle faccende marito/moglie il film si sarebbe autodistrutto poiché il regista non avrebbe potuto reggere un cinema prettamente narrativo, per sua fortuna la storia si fa invadere senza stonature da risvolti etnografici anche non direttamente collegati alla traccia principale (la lunga scena del matrimonio), il risultato è una stabilità dalla quale è possibile desumere informazioni circa la realtà culturale di quella zona delle filippine, e c’è un minimo di cui interessarsi perché abbiamo la possibilità di confrontarci con pratiche religiose e culturali lontane dalle nostre e che Mendoza, fedele alla propria visione di Verità, non stigmatizza né condanna. Si assiste piuttosto increduli alla compravendita di donne le cui uniche funzioni saranno quelle gestative, al pari delle cerimonie arcaiche che sanciscono i matrimoni o delle trattative precedenti ad essi. In parallelo si sviluppa il mondo interiore della moglie (il paradosso è che una specie di ostetrica non può avere figli) che Mendoza raccoglie e ritrasmette con grande dignità femminea, e perfino durante il finale!, dove dentro a quello strano quartetto famigliare è l’unica che abbozza un sorriso.

venerdì 13 gennaio 2017

Chevalier

Cinque anni dopo Attenberg (2010), sei dopo Dogtooth (2009), e di cose per Athina Rachel Tsangari ne devono essere accadute parecchie: ha visto, prima di ogni cosa, il consolidarsi di un movimento artistico che ha impressionato molti cinefili del globo, successivamente alla spinta artistica è subentrata una fase di inevitabile rinculo figlia, tra le altre cose, del proliferare di film-fotocopia che non hanno saputo far evolvere il discorso greco, infine con Chevalier (2015) la regista-produttrice è giunta ad una ritrazione che sa di ratifica: la new wave ellenica sta diventando una bassa marea che nemmeno l’influenza gravitazionale di quattro lune riuscirà a sollevare, e probabilmente è anche giusto che la cosa si sgonfi, che assuma altre forme, che si affacci in altri contesti (vedi The Lobster, 2015). Si può anche stare ad esaminare il lavoro della Tsangari trovandovi segnali di stile et collegamenti ad altre opere recenti della medesima cerchia, fatelo pure se avete tempo da perdere, alla fine convergerete comunque in un unico punto: Chevalier è un film che non sa colpire lo spettatore se non in termini di noia derivante da un’inaspettata assenza di un qualcosa che possa irrobustire la sezione “significati” al di là di quello che si intuisce immediatamente (la competizione c’è già dall’inizio nella foto di gruppo dopo la battuta di pesca).

In generale sono d’accordo con il pensiero di Nicola Settis (link) che sostiene: “alla fine il film parla di una gara a chi è il migliore e non narra altro che questa gara, questo giochino, senza neanche fare una vera e propria analisi sociologica ma anzi cercando una specie di stupida morale ricavata con divertimento e leggerezza”. È esattamente così, e aggiungo: non era neanche indispensabile un approfondimento sociale o psicologico dei soggetti in scena, ma a ‘sto punto sarebbe stato meglio del vicino-niente a cui la Tsangari è arrivata. Il fatto è che mai come questa volta il metodo alieno e distaccato del recente cinema greco infiacchisce paurosamente la proiezione desertificando il gusto di poter accedere all’interno dell’opera. Se ad esempio nei film di Lanthimos l’ironia ha spesso avuto una forte componente caustica, qui i toni comici sono banalmente tali e risulta davvero difficile recepire la loro funzionalità, per chi scrive non è stato affatto appagante vedere un sestetto di uomini che su uno yacht-palcoscenico fa cose stupide in un susseguirsi di sketch filtrati da una pseudo-autorialità, non bastano alcune timide intuizioni che richiamano al fallocentrismo imperante (la locandina con il timone penedotato è esemplare) o all’idiozia adulta che non si è mai scrollata via l’età dell’adolescenza (il patto di sangue in stile boy-scout), è che latita quel mordente che sempre cerchiamo, quella fusione tra il dire e il significato soggiacente che in un film narrativo dovrebbe perlomeno toccarci.

Ma come detto all’inizio è plausibile che la Tsangari stia sondando altri contenitori per proporre il suo cinema e quello della commedia, visti i precedenti, poteva essere una buona variazione. Poteva. La realtà delle cose, come sempre insindacabile, ci serve nel piatto il surrogato di una settima arte depotenziata della risaputa carica detonante, il precipitato che si deposita di certo non fa deflagrare granché poiché sull’imbecillità della categoria maschile si sapeva già “qualcosina” e il ripensare di aver assistito alla sequenza dei banali siparietti in Chevalier mi toglie la voglia di scrivere. Quindi: antío.

mercoledì 11 gennaio 2017

Aramaki

Pianosequenza di venticinque minuti dallo sguardo etologico, l’animale in via di estinzione è l’Uomo e Hirabayashi lo suggerisce con la finezza del dettaglio facendoci capire che ci siamo proprio noi, Io e Te, in quell’umida foresta impegnati in gesti all’apparenza incomprensibili. D’altronde in un quadro così basico alcuni elementi non possono essere casuali, e attraverso il mantra less is more che non dà coordinate specifiche e che quindi arriva ad irradiare tutta l’indeterminatezza dell’universalità, spiccano delle rifiniture altresì fondamentali perché l’uomo pronto a commettere l’atto più estremo è un fantoccio mondo globalizzato, è l’ovest del pianeta (un ovest che sta anche ad est, anche in Giappone) che ha brandizzato le persone, ha logoizzato i corpi: il protagonista indossa una felpa arancione dell’Olanda, sotto di essa ha un’altra felpa – forse – del Brasile, e ancora sotto una maglietta con sopra degli alieni stilizzati, infine porta delle scarpe colorate dell’Adidas. Questo è un melting pot disidentificante, l’armatura dell’essere vivente civilizzato è esattamente così, una divisa che mettiamo su per la battaglia della vita, ed è proprio a causa di ciò che lì dentro ci siamo Noi. Non Vi convince nemmeno il selfie che il tizio si fa poco prima di… ?

Con uno spessore concettuale di molto superiore a Soliton (2014) che si presentava più come un esercizio tecnico senza particolare profondità, Aramaki (2010) centra chirurgicamente l’illustrazione laterale di una fine laddove lo svestimento degli abiti diventa acquiescenza con la morte e, soprattutto, regressione totale dal mondo così come lo conosciamo. L’animalizzazione è pronta e servita: in uno scenario lustrale dove non basta uccidersi ma c’è anche bisogno di essere martoriati dai lupi, il passaggio tramite il mezzo-cinema da uno stato biologico all’altro è una trasformazione che ho trovato realmente investente e pregna di possibili significati, la voce di Hirabayashi, che gioca con lo spettatore mimetizzando un cappio penzolante nell’ambiente boschivo, è un de profundis atavico, un teatro dell’espiazione ancestrale dove le colpe da pagare sono però rintracciabili nel falso mito del benessere occidentale. E quando stiamo per alzarci dalla poltrona i titoli di coda, altra prova d’eclettismo del regista che lavora spesso nel campo animato (anche per bambini), ci rinchiodano sul posto. E il 2D spalanca l’abisso.
Presentato a Berlino 2010.

lunedì 9 gennaio 2017

Il mnemonista

Do voce ad un film italiano sommerso, dotato di quella clandestinità che oggi, diciassette anni dopo, trasuda dal rippaggio di un VHS: è inevitabilmente un film dimenticato Il mnemonista (2000), probabilmente mai visto, ed è paradossale proprio perché ciò su cui si concentra è esattamente la memoria: l’esperire ed il ricordare, qui portato all’acme di ogni possibile processo: S., Sandro Lombardi colonna fantasmatica del film, è schiacciato dal continuo sbocciare di reminescenze fino ad ingarbugliare i piani della realtà e dell’immaginazione, “il tempo scorre e confonde” dice una scritta su un muro distrutto poco dopo, e l’andamento dell’opera segue questa scia. Perché sì che siamo di fronte ad un cinema narrativo, ma è anche vero che la narrazione è dinamitata da lampi e deviazioni che annullano la progressione degli eventi, il tempo filmico in sostanza non ha un percorso lineare e lo si afferra da rapidi accadimenti come quando il dottore riceve una cartolina che sembra giungere dal “futuro”, o come quando nello spazio di qualche frame si dice siano passati anni ed anni nei quali S. ha cambiato molti lavori, la dimensione labirintica dell’opera diventa allora la puntuale simmetria del cervello dell’uomo, senza coordinate non si può fare altro che abbandonarsi all’avanzare delle immagini.

Paolo Rosa, deceduto nel 2013 e padre fondatore del collettivo avanguardistico Studio Azzurro di Milano, restituisce ai nostri occhi quanto detto sopra attraverso un fluire ricolmo di accenti che ingioiellano la pellicola e la rendono un oggetto dagli echi sperimentali, sicuramente dotata di un’identità forte che l’ha fatta distinguere ma, vista la sua misconoscenza, anche lentamente estinguere. Scelte intriganti come i minuti iniziali col monologo di S. poi decostruito con l’inizio del film, flashback arricchenti che piacerebbero parecchio al primo Julio Medem, e in generale il procedimento che esplica cinematograficamente il meccanismo mentale del ricordo da parte di S. con le sue associazioni eidetiche, veri strappi, fenditure, pozzi fantasiosi, rendono Il mnemonista un film che nel farsi inizialmente campo di studio psicologico e linguistico sa evolversi in un impeto surreale che non è impeto, ma sussurro vitale di un cinema interrato.

Davanti alla mdp Roberto Herlitzka e Sonia Bergamasco, dietro anche Martina Parenti (Il castello [2011] e Materia oscura [2013]).

venerdì 6 gennaio 2017

The Ornithologist

Film dopo film João Pedro Rodrigues si è confermato uno dei registi più interessanti dell’attuale panorama autoriale mondiale oltre che, restringendo il campo, uno dei migliori, fra tanti altri fuoriclasse, del cinema portoghese, una vera e propria culla di talenti che, guardando in casa nostra, ci sogniamo di avere. Dati alla mano erano sette anni che Rodrigues non dirigeva un film da solo in quanto, come ben saprete, nell’ultimo lustro il suo sodalizio con João Rui Guerra da Mata (comunque presente anche qui nelle vesti di art director) lo ha portato a creare un curioso ponte cinematografico fra l’Europa e la Cina, un collegamento che si attua anche ne O Ornitólogo (2016) ma solo in un breve inserto perché all’interno del film presentato a Locarno c’è ben di più e se vogliamo provare ad analizzare la sua forma, la sua parte più esterna e teoricamente più ricevibile siamo già disorientati: The Ornithologist inizia come un documentario naturalistico con tratti di finzione (le soggettive dei binocoli) ma nel giro di qualche fotogramma inizia a cambiare pelle e il suo essere camaleontico, tra la mutazione e la mimesi, diventa il manifesto programmatico non solo dell’opera in questione ma forse anche di tutta una carriera. Quello che accade lo si lascia alla visione, si sappia, comunque, che Rodrigues sfiora il mainstream di Un tranquillo weekend di paura (1972) e alla lontana le inquietudini di The Blair Witch Project (1999) facendo poi assurgere il tutto in una dimensione quasi dumontiana senza però che si realizzi completamente il processo di trascendenza, sostiamo in una suadente zona ibrida tra la terra (dove sta Fernando) ed il cielo (dove stanno gli uccelli).

Questo dualismo tra qualcosa di oltre e qualcosa di concreto è una costante che si perpetua assiduamente all’interno della pellicola e che ci porta nel suo cuore pulsante: la più originale agiografia che sia mai stata fatta su Sant’Antonio di Padova e probabilmente su qualunque altro Santo del calendario. La biografia del religioso dialoga comunque apertamente col cinema misterico e corporale di Rodrigues tanto che all’interno di O Ornitólogo vivono dei cortocircuiti ammalianti in cui si mette in atto l’antitesi terra/cielo sopraccitata e quindi ecco che il sacro ed il profano si palesano in quanto è vero che il macro-tema della religione è progressivamente sempre più presente nel film, ma è altrettanto insindacabile che Rodrigues si fa sberleffo dell’intoccabile e allora, per esempio, quando Fernando viene rapito dalle integraliste cattoliche cinesi il modo in cui è legato ricorda un po’ il San Sebastiano del Mantegna ma anche un tizio impegnato in una qualche pratica bondage [1], oppure, nella parte che meglio esemplifica tale discorso, l’incontro fisico che diventa scontro letale tra l’ornitologo ed il pastore Jesus, e la contrapposta scena con il fratello gemello Thomas, sono momenti che sublimano tra la carnalità e la spiritualità. Il percorso di Fernando punteggiato dagli eventi appena menzionati e da altri ancora di cui si lascia il piacere della scoperta allo spettatore, è un percorso iniziatico (con le cinesi Fernando, ancora uomo di scienza, nega l’esistenza di Dio, successivamente si metterà a parlare con i pesci come un profeta), un viaggio mistico che comporta una trasformazione [2], anzi, una trasfigurazione totale (dalle impronte digitali cancellate, magari una citazione di Qu’ils reposent en révolte (Des figuresde guerre) [2010]? Fino all’apoteosi della metamorfosi con l’avvicendamento tra l’attore Paul Hamy/Fernando e Rodrigues/António) che approda nel soprannaturale (Fernando/António muore e risorge due volte nello spazio di un quarto d’ora) senza però perdere i gradi della finzione (basta guardare l’ultimo atto al chiaro di luna e la sua impostazione teatrale con fumi rossi a fare da sfondo).

Quindi, dopo The Last Time I Saw Macao (2012), il lungometraggio precedente, così diverso ma, per merito della stessa filigrana autoriale che lo cuce, così simile a O Ornitólogo, João Pedro Rodrigues continua ad essere una voce parecchio rispettabile per provare a capire quale sia la direzione che il buon cinema d’essai sta prendendo in questi anni iper-veloci (e una base di partenza imprescindibile sembra essere la commistione dei generi, aspetto su cui il regista di Lisbona ha spinto molto nel corso della carriera), e se vi chiedete quali benefici può portare l’assistere ad un weird-biopic su Sant’Antonio [3], la risposta è sita nel film stesso e nella sempre valida regoletta per cui non è affatto importante il cosa si racconta ma il come, e Rodrigues in quest’ottica è una garanzia.
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[1] C’era un precedente: la tuta in latex nero de Il fantasma (2000).

[2] Eccone un altro: To Die Like a Man (2009)

[3] Ce ne sarebbe anche un terzo che però il sottoscritto non è ancora riuscito a vedere: Manhã de Santo António (2012)

mercoledì 4 gennaio 2017

Sevilla

Coppia + amico si dà all’on the road direzione Siviglia. Non ritorneranno in tre.

Si allontanino immediatamente gli infaticabili cercatori di Visioni, Sevilla (2012) non merita il vostro sguardo data l’evidente pochezza di cui è costituito. La tabula rasa di questo corto olandese fa da pista di decollo verso l’assenza di un senso protesico, finito di essere non abbiamo ricevuto niente, al di là del banale senso immediato, quello che soggiace alle dinamiche narrative, c’è l’indescrivibiltà del nulla, tanto vale allora rimanere nella barricata di La Palice e dire che: Sevilla procede strutturalmente fondendo episodi di un passato con l’attualità del presente, il dialogo tra le due dimensioni è rimarcato da accorgimenti stravisti (lei adesso ha i capelli corti e sempre adesso l’atmosfera è plumbea) che non riescono a rendere la porzione del trascorso nemmeno uno sbiadito album dei ricordi. Quello che doveva essere il rappresentante di un’elaborazione luttuosa non può che infossarsi in una scialba sagoma di cinemino perché, di base, non utilizza i codici necessari per incidere l’intimità della perdita definitiva, troppo istantaneo l’apparato di questo film per poter avere una vita fuori dalla sua piccola cornice.

Si poteva supporre che fossimo dinanzi ad un’opera prima, ed uno spirito un po’giovanilistico in qualche modo era capace di rafforzare l’ipotesi, ma andando a leggere il curriculum di Bram Schouw si evince di come Sevilla sia soltanto un tassello di una carriera cominciata già nel 2005. Se in sette anni Schouw è arrivato qua, in una zona di ordinario p(i)attume, allora è meglio agitare il palmo della mano e fare ciaociao Bram.

lunedì 2 gennaio 2017

The Room

Scorrazzando lungo la filmografia di Sion Sono appare chiaro che prima della trilogia suicida era un altro Sono. Non completamente diverso perché abbiamo visto di come in alcune sue opere giovanili ci fosse una torrenzialità non troppo divergente da un Cold Fish (2010) qualunque (si prenda in esempio Jitensha toiki [1990] o Utsushimi [2000]), al contempo però il regista giapponese aveva stupito con un film agli antipodi del suo stile dimostrando un’inaspettata voglia di ricerca (Keiko desu kedo, 1997), ebbene Heya (1993) sposa la causa del Sono minimalista poiché ci troviamo al cospetto di un lavoro realmente asciutto con un taglio oserei dire europeo che opera nella sottrazione, tutte le componenti filmiche tendono ad uno zero assoluto, non è pervenuta la straripanza attoriale che lo caratterizzerà in futuro né l’esondante fluire tramico; attuando questa radicalizzazione Sono affida ogni possibile senso al cuore del cinema: l’immagine, e, senza esagerare in lirismo, è un cuore che batte, nel senso che funziona poiché il senso va proprio a situarsi lì, nella particella elementare della settima arte. The Room è un film dell’immagine e lo ostenta con coraggio fin da subito usando pressoché esclusivamente piani fissi e dilatando in maniera inconsueta i tempi di ripresa; nel procrastinare lo stacco da una scena all’altra si crea un oggetto formato da tante piccole espansioni, forse superflue ma comunque capaci di dare uno spessore non da poco alla pellicola.

E comunque Heya a prescindere dalle sue tempistiche ha per quasi un’ora una struttura molto rigida che facendo uso della ripetizione va a costituirsi in una sorda musicalità composta da simili e diversi elementi (il tragitto in metro – la visita della casa – di nuovo la metro – di nuovo la casa), il ritmo ipnotico è interrotto da Sono con l’unico flashback del film, è un salto all’indietro rivelatore che denuda il misterioso uomo e che stupisce per l’austerità con cui ci viene proposto (un sicario nel bel mezzo delle sue malefatte come sarebbe stato esposto dal Signore del Caos vent’anni dopo?), da qui il film si solleva palesando nel prosieguo il suo nucleo elegiaco. Può essere visto in quest’ottica il peregrinare del killer da un appartamento all’altro, come se la ragazza-Caronte traghettasse il carnefice nel luogo prescelto per il trapasso, sicché senza accorgercene neanche in appena novanta minuti ci viene data la possibilità di guadare lo spazio-cinema/vita da una sponda all’altra, e nell’arrivo si constata un’apertura esistenziale. Se preso singolarmente è probabile che The Room non susciti una particolare ammirazione, ma perché limitarsi a ciò? Un tassello del genere se incollato nel mosaico sononiano acquista un valore più alto, e Sono stesso, nonostante fosse agli inizi della carriera, manifestava già un tocco e un’idea da professionista.