Girato a ventinove anni
in completa indipendenza, Boatman (1993) di Gianfranco Rosi è
un esempio di discreto cinema etnografico, più che altro ciò
che suscita ammirazione è lo spirito avventuriero che lo
principia, la curiosità di un italiano benestante che arrivò
a Benares quasi per caso e dove vi ritornò più volte
intessendo legami tramutati in storie da raccontare, come quella del
barcaiolo Gopal o dei due italiani, un romano e un genovese, delle
cui vite, soprattutto quelle future, sarebbe interessante venire a
conoscenza. Ma Boatman non ha tempo per l’approfondimento
umanistico, adagiato sul tempo di un’escursione in canoa sul Gange,
e quindi aderente ad una sorta di realismo sebbene rimanga evidente
il fatto che le riprese si siano svolte in più giorni, il
lavoro d’esordio del regista nato in Eritrea si fa POV,
testimonianza oculare a cui i vari personaggi si rivolgono annullando
il filtro della macchina da presa. C’è Rosi su quel guscio
di noce che scivola sulle acque del Fiume Sacro sfiorando carcasse
galleggianti dalle ossa ormai porose e crisalidi con resti
incancreniti di quella che un tempo era una persona, e l’esserci di
Rosi diventa parallelamente il nostro esserci, ergo: abbiamo una
piccola immersione, un’apnea in un mondo che, implementato dal
bianco e nero granuloso, appare lontano e magnetico al contempo, in
un tilt di fascino e repulsione che non lascia impassibili.
Per provare a comprendere
il tasso di “immaturità” che caratterizza Boatman
basta scorrere il curriculum di Rosi per accorgersi che il film
successivo verrà girato più di un decennio dopo
dall’altra parte del globo terracqueo (Below Sea Level,
2008), eppure nonostante le evidenti imperfezioni ed improvvisazioni
accetto molto più di buon grado un cinema come questo che
l’autorialismo sterile di Sacro GRA (2013). Boatman,
pur non raggiungendo nemmeno i sessanta minuti di lunghezza, con il
suo essere spugna sa assorbire ciò che lo circonda senza
estetismi né elucubrazioni di sorta, è una visione del
genere che nella semplicità di uno sguardo sulla vita e sulla
morte può riconciliare l’esperienza spettatoriale con la
dimensione dell’originalità e della purezza, è
sufficiente una mandria di bambini nudi che gioca nel bel mezzo del
Gange a divorarsi tutta la finzione che ammanta la settima arte.
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