Kikyû kurabu, sonogo
(2006) rientra in quella categoria di film sononiani che potrebbe
essere equiparata ad una marmellata dolciastra, non è che siano
opere esageratamente buoniste o smaccatamente banalotte (oddio, un
po’ sì, e in ambedue i casi), è che sapendo chi è la mente
dietro il progetto ci si indigna parecchio al pensiero che il regista
di Cold Fish (2010) abbia partorito oggetti futili come Be Sure to Share (2009), The Land of Hope (2012) e Love & Peace (2015) ma è un discorso che il sottoscritto ha fatto più
volte e che, in fondo, non fregherà nulla al resto del mondo, e non
per niente il suddetto mondo continuerà beatamente ad ignorare
l’esistenza di Balloon Club, Afterwards (o Balloon Club Revisited), un titolo che pare
sia uscito in Giappone il 23 dicembre 2006 (una data che non
stupisce) e che non ha mai evaso i confini nazionali se non
sottoforma di DVD acquistabile sull’Amazon nipponico. Insomma, dati
del genere mettono già in chiaro la pochezza su cui ci si appresta a
ragionare, Sono al suo peggio è un Sono che non si può guardare
così impegnato ad imbastire una routine para-drammatica che si
sforza invano nel rendere interessante l’esistenza di un gruppo di
giovani appassionati di mongolfiere. Se di primo acchito la faccenda
potrebbe apparire perlomeno curiosa, tutta la storia si riduce alla
metafora per nulla suggerita del perseguire i propri sogni per poter
volare in alto. È il caso di dirlo: ciò che si sgonfia, oltre al
bar-cupola messo in piedi dalla comitiva, è il film stesso, da
subito.
Un barlume approfondibile
sarebbe quello dei cellulari che tengono in comunicazione tra loro i
membri del club, nel prologo tale elemento è messo in evidenza
poiché l’incidente di Murakami rimbalza da un telefonino all’altro
dei suoi amici, ed anche successivamente una delle ragazze
sottolineerà di come l’unico modo per mantenere un contatto sia
esclusivamente attraverso l’aggeggio che tutti abbiamo in tasca, ma
a Sono non preme granché riflettere sul possibile deterioramento
delle relazioni umane causato dai cellulari, il mood di Kikyû
kurabu, sonogo è post-adolescenzialmente orientato a raccontare
una storia dove al succitato mantra di dare adito alle proprie
velleità che trova nello strambo Murakami la figura di riferimento,
si uniscono sottotrame sentimentali davvero leggerine che nemmeno il
flusso narrativo suddiviso continuamente tra passato e presente è
capace di risollevare; al carico negativo si aggiunge poi una
mediocre qualità estetica dettata da un digitale che oggi, a più
di dieci anni di distanza, sembra già appartenere al Precambriano
(e pensare che appena un anno dopo Sono realizzerà Exte
[2007] un’opera che ha la patente della professionalità
mainstream, bah, follie di Sion). Forse si potrebbe allentare la
morsa della critica su un lungo finale che ricostruisce per brandelli
la storia tra Murakami e Mitsuko (sempre e per sempre questo nome…),
l’operazione è un filo deviante dai canoni del film (che in
sostanza finisce prima, ovvero quando tempo dopo lo scioglimento
della congrega i tizi vedono una mongolfiera sopra i grattacieli
della città) e perciò appena appena più interessante, ma, come
spesso ripeto in situazioni così, chi ce lo fa fare con tutto il
cinema che c’è da visionare di utilizzare minuti preziosi per
quisquiglie di tal fatta?