Dubito fortemente che,
come si legge un po’ ovunque, Sion Sono abbia cambiato stile per
questo Kibô no kuni (2012) e che da adesso in avanti
dovremo scordarci la sua torrenziale intemperanza artistica. In
realtà pescando nella sterminata, e in perenne espansione,
filmografia che ormai si avvicina alle quaranta unità (in
ventotto anni di carriera!), c’è stato un precedente di apparente
docilità, mi riferisco a quel Be Sure to Share (2009) che poco
aveva a che fare con l’universo-Sono fino a quel momento
conosciuto, poi appena un anno dopo vi fu l’irruzione a Venezia con Cold Fish (2010), rovesciando completamente le impressioni di
trecentosessantacinque giorni prima e donando una nuova,
indimenticabile, affermazione della sua esorbitante poetica. Quindi,
ritengo, anzi mi auspico, che il film dopo The Land of Hope,
Why Don't You Play in Hell? (2013), presentato ancora al
Lido, ricalcherà nuovamente le caratteristiche del Sono che
più ci piace, e a giudicare dalle immagini in anteprima c’è
da scommetterci.
Premesso ciò,
valutando singolarmente The Land of Hope l’opinione è
quella di trovarci al cospetto di un’opera pensata e girata con in
mente un concetto ben preciso: quello dell’esportabilità, e
probabilmente non è tanto un discorso economico ad aver fatto
propendere Sono per questa strada, quanto (supposizione mia) la
necessità di far conoscere ad un più vasto numero di
spettatori la tragedia del terremoto e tutti gli infausti effetti da
esso derivati (tsunami, allarme nucleare, ecc.).
Tale intento comporta
però una via di trasmissione che si adagia su frequenze che
hanno del televisivo, per non dire del soapoperistico; è vero
che per l’ennesima volta Sono pone al centro del palcoscenico la
Famiglia con tutti i relativi legami spezzati e risaldati, ma la
mancanza di quel preciso ragionare per eccesso, di quella
esacerbazione dei meccanismi consanguinei che giungeva a capilinea
annichilenti come l’incesto o il parricidio senza che vi fosse il
minimo puzzo di gratuità, sono elementi che pesano enormemente
nell’economia della storia, perché quello che lo schermo ci
restituisce è un racconto orizzontale, che si riduce minuto
dopo minuto fino a diventare filmetto, in costante dialogo con la
banale metafora di un Paese pronto a rialzarsi passo dopo passo
(i padri rimangono, i figli vanno), sorprendentemente (in negativo)
orientato nel tentativo di strappare qualche lacrima con procedure
che proprio non riescono a conciliarsi né con il furore
sononiano, né con la dignità melodrammatica che oggi il
cinema dovrebbe possedere, e l’ultimo abbraccio padre-figlio è
esattamente la “pietra dello scandalo” in merito alla questione.
Se ripensiamo a Himizu
(2011) e all’esondante vitalità che lo permeava, la
tematizzazione del sisma nipponico, anche se posta in itinere
all’interno della pellicola e non affrontata direttamente, appare
molto più convincente della corrispettiva trattazione di The
Land of Hope dove sebbene faccia da sfondo principale alla
vicenda resta intrappolata in una serie di paletti sminuenti che ne
infiacchiscono le potenzialità: il dramma è romanzato,
il sentimento è mellifluo, la poesia flebile, un possibile
accento subito sedato (la psicosi della ragazza verso le radiazioni,
il vero Sono avrebbe dato il meglio di sé con una donna
incinta nel bel mezzo di una fuga radioattiva). Forse mosso da uno
spirito nazionalistico il regista ha preferito accomodare
l’autorialità per oltrepassare la nicchia, il risultato è
però questo, e chi ha sete di un cinema intransigente, attento
al cosa ma soprattutto al come, non potrà che archiviare
celermente la visione.
Avevo in programma di recensirlo anch'io, ma i pareri a visione ultimata sono stati parecchio simili ai tuoi, quindi ho evitato, adorando Sono, di scriverla, fondamentalmente perché mi sembrava di non averlo capito: grazie al cielo leggo qualcosa che è nelle mie corde, a proposito di questo film! Ora speriamo bene con l'ultimo a Venezia...
RispondiEliminaDeludente, ma non me ne faccio un cruccio, so (sappiamo) che Sono non è questo. Si rifarà prestissimo.
RispondiEliminaSì, l'ultimo trailer preannuncia un ritorno al pop dei tempi d'oro, almeno spero. Di recente ho recuperato "Keiko Desu Kedo", uno dei pochi che mi mancano di Sono, e mi sa che è arrivato il momento di vederlo, almeno in preparazione a "Jigoku de Naze Warui" :D
RispondiEliminaKeiko... è il film più sperimentale di Sono che abbia mai visto. Inaspettatamente teorico, non so se ti piacerà ma penso che ti attiverà le meningi. :)
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