sabato 24 agosto 2013

The Land of Hope

Dubito fortemente che, come si legge un po’ ovunque, Sion Sono abbia cambiato stile per questo Kibô no kuni (2012) e che da adesso in avanti dovremo scordarci la sua torrenziale intemperanza artistica. In realtà pescando nella sterminata, e in perenne espansione, filmografia che ormai si avvicina alle quaranta unità (in ventotto anni di carriera!), c’è stato un precedente di apparente docilità, mi riferisco a quel Be Sure to Share (2009) che poco aveva a che fare con l’universo-Sono fino a quel momento conosciuto, poi appena un anno dopo vi fu l’irruzione a Venezia con Cold Fish (2010), rovesciando completamente le impressioni di trecentosessantacinque giorni prima e donando una nuova, indimenticabile, affermazione della sua esorbitante poetica. Quindi, ritengo, anzi mi auspico, che il film dopo The Land of Hope, Why Don't You Play in Hell? (2013), presentato ancora al Lido, ricalcherà nuovamente le caratteristiche del Sono che più ci piace, e a giudicare dalle immagini in anteprima c’è da scommetterci.

Premesso ciò, valutando singolarmente The Land of Hope l’opinione è quella di trovarci al cospetto di un’opera pensata e girata con in mente un concetto ben preciso: quello dell’esportabilità, e probabilmente non è tanto un discorso economico ad aver fatto propendere Sono per questa strada, quanto (supposizione mia) la necessità di far conoscere ad un più vasto numero di spettatori la tragedia del terremoto e tutti gli infausti effetti da esso derivati (tsunami, allarme nucleare, ecc.).
Tale intento comporta però una via di trasmissione che si adagia su frequenze che hanno del televisivo, per non dire del soapoperistico; è vero che per l’ennesima volta Sono pone al centro del palcoscenico la Famiglia con tutti i relativi legami spezzati e risaldati, ma la mancanza di quel preciso ragionare per eccesso, di quella esacerbazione dei meccanismi consanguinei che giungeva a capilinea annichilenti come l’incesto o il parricidio senza che vi fosse il minimo puzzo di gratuità, sono elementi che pesano enormemente nell’economia della storia, perché quello che lo schermo ci restituisce è un racconto orizzontale, che si riduce minuto dopo minuto fino a diventare filmetto, in costante dialogo con la banale metafora di un Paese pronto a rialzarsi passo dopo passo (i padri rimangono, i figli vanno), sorprendentemente (in negativo) orientato nel tentativo di strappare qualche lacrima con procedure che proprio non riescono a conciliarsi né con il furore sononiano, né con la dignità melodrammatica che oggi il cinema dovrebbe possedere, e l’ultimo abbraccio padre-figlio è esattamente la “pietra dello scandalo” in merito alla questione.

Se ripensiamo a Himizu (2011) e all’esondante vitalità che lo permeava, la tematizzazione del sisma nipponico, anche se posta in itinere all’interno della pellicola e non affrontata direttamente, appare molto più convincente della corrispettiva trattazione di The Land of Hope dove sebbene faccia da sfondo principale alla vicenda resta intrappolata in una serie di paletti sminuenti che ne infiacchiscono le potenzialità: il dramma è romanzato, il sentimento è mellifluo, la poesia flebile, un possibile accento subito sedato (la psicosi della ragazza verso le radiazioni, il vero Sono avrebbe dato il meglio di sé con una donna incinta nel bel mezzo di una fuga radioattiva). Forse mosso da uno spirito nazionalistico il regista ha preferito accomodare l’autorialità per oltrepassare la nicchia, il risultato è però questo, e chi ha sete di un cinema intransigente, attento al cosa ma soprattutto al come, non potrà che archiviare celermente la visione.

4 commenti:

  1. Avevo in programma di recensirlo anch'io, ma i pareri a visione ultimata sono stati parecchio simili ai tuoi, quindi ho evitato, adorando Sono, di scriverla, fondamentalmente perché mi sembrava di non averlo capito: grazie al cielo leggo qualcosa che è nelle mie corde, a proposito di questo film! Ora speriamo bene con l'ultimo a Venezia...

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  2. Deludente, ma non me ne faccio un cruccio, so (sappiamo) che Sono non è questo. Si rifarà prestissimo.

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  3. Sì, l'ultimo trailer preannuncia un ritorno al pop dei tempi d'oro, almeno spero. Di recente ho recuperato "Keiko Desu Kedo", uno dei pochi che mi mancano di Sono, e mi sa che è arrivato il momento di vederlo, almeno in preparazione a "Jigoku de Naze Warui" :D

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  4. Keiko... è il film più sperimentale di Sono che abbia mai visto. Inaspettatamente teorico, non so se ti piacerà ma penso che ti attiverà le meningi. :)

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