Cortometraggio
australiano che ricalca tanto per stile quanto per contenuto il
cinema americano poiché ruotante attorno ad una piaga feroce
come quella dei massacri scolastici et similia, i quali
ovviamente pur non essendo un’esclusiva statunitense hanno nella
terra a stelle e strisce un’impennata statistica i cui casi
giungono frequentemente nei nostri telegiornali.
Luke Doolan con Miracle
Fish (2009) entra nella cerchia dei registi, un gruppo pullulante di
nomi illustri (Van Sant,
Ramsay, Villenueve), che hanno tentato di catturare quel
momento di follia omicida vomitato su soggetti ignari nonché
innocenti. In poco più che un quarto d’ora Doolan, nato a
Sidney nel ’79, opta per un approccio soft che si orienta per mezzo
di una scialbetta composizione dei ruoli: madre non irreprensibile
(padre in ospedale!), compagni mini-gradassi, risultato: un Joe che
se ne sta sulle sue, corrucciato (“stranamente” è il suo
compleanno e come regalo ha ricevuto un pesciolino di plastica che
prevede il futuro), forse così rassegnato da preferire
l’esilio nella stanzetta del medico. La seconda parte ha più
consistenza perché riprendendo i toni della prima illude sulla
natura stessa del film: nel seguire Joe attraverso fluidi spostamenti
della mdp Doolan insinua l’idea che la realtà possa essersi
piegata alla volontà del bimbo (ma anche a volontà
extra… terrestri) salvo poi annerire la vicenda con la chiamata al
cellulare che pur prestando il fianco a critiche razionali funziona
bene per introdurre un climax adeguatamente gestito con il giochino
del pesce miracoloso capace di predire davvero il futuro.
Peccato per il rallentone finale che aspira l’efferatezza della
situazione per rivestirla con un “abito” molto, troppo,
hollywoodiano.
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