La storia, ispirata dal
celebre romanzo di James M. Cain Il postino suona sempre due volte
pubblicato nel ’34, è semplice: lui, lei e l’altro, tipico
triangolo che identifica i suoi vertici in una coppia che gestisce un
negozio e il giovane aiutante che presta servizio nel medesimo
locale. Tutto normale se non fosse che a dirigere c’è il
György Fehér di Twilight (1990) il quale scrive la
sceneggiatura insieme all’amico Béla Tarr, per cui c’è
un primo elemento d’attenzione: mai, in tutta la produzione
filotarriana, si era dato un accento così prestante alle
tematiche sentimentali, magari sfiorate sì, ma la centralità
viaggiava sempre per altre istanze; in Szenvedély
(1998), almeno dentro la sua prima ora, nella tanto amata pianura
ungherese, piena di fango e pioggia scrosciante, palpita una liaison
a tre che Fehér riesce a sintetizzare nel prologo [1]: il
marito sospetta qualcosa, l’amante (è János Derzsi,
attore ne Il cavallo di Torino, 2011) nell’essere obbligato a
ballare con la moglie suda freddo ma tiene duro poiché
innamorato della donna. I sessanta minuti che precedono l’omicidio
illustrano questo andirivieni amoroso che sottolinea le difficoltà
dei due fedifraghi a trovare la pace desiderata (la foto che vedete
in calce è l’unico istante di tranquillità); il
regista magiaro pur rimanendo fedele all’estetica intransigente che
tutti gli adoratori di Tarr conoscono, nel mostrare i tentativi di
sbarazzarsi del vecchio coniuge utilizza un registro flebilmente
ironico che non stona affatto con l’uggiosa atmosfera del film,
anzi, ne rinfresca i toni cupi, ossigena la drammaticità di un
assassinio premeditato.
È vero che lo
stile identifica immediatamente l’appartenenza a questa fetta di
cinema ungherese che tanto ci ha fatto stropicciare gli occhi, e il
bianco e nero, la dilatazione temporale, le fluttuanti manovre di
ripresa e la stiticità verbale sono lì a rimarcarlo,
però, anche a confronto diretto con il precedente Szürkület,
l’impressione è che a Szenvedély manchi quella
solennità tipica della corrente a cui appartiene, soprattutto
nella seconda parte dove la vicenda si invischia nelle aule di
tribunale per concentrarsi sui sotterfugi, o sui possibili sospetti e
conseguenti tradimenti, la morsa dell’attenzione viene meno, delle
crepe venano l’esposizione del legame tra i novelli fidanzati, la
chiarezza si imbrunisce ed anche la risoluzione dell’inghippo da
parte dell’avvocato arriva in modo soft, normale ingranaggio del
meccanismo narrativo. È appunto la normalità a
tenere con i piedi piantati per terra Szenvedély, il
cinema di Tarr è cinema che diventa epica (dell’uomo), ogni
sua opera è un trattato di mitologia moderna che ci obbliga ad
un’estrema lettura delle istituzioni che costituiscono la settima
arte, instillando poi Verità illuminanti sul mondo e sulla
realtà che sta oltre lo schermo, certo Passion è un film
di Fehér e forse non è corretto ricercare al suo
interno l’impronta teorica di un altro autore, ma è questo
che qui latita, Szenvedély non è un film che
nuota nell’universalità, al contrario si accontenta di
stazionare nella provincia e di essere il surrogato di una materia
che ha partorito manifestazioni ben più verticali.
Con onestà: ci
aspettavamo qualcosina di meglio.
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[1] Il prologo in
questione assomiglia un poco (ma poco) a quello de Le armonie di Werckmeister (2000), simile stanza spoglia, simile danza
sbilenca.
Be', dai, se mi citi Tarr e Fehér non puoi che invogliarmi non poco a vederlo, 'sto film. Lo cerco, me lo guardo e ripasso per ringraziarti. ;)
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