martedì 6 agosto 2013

Szenvedély

La storia, ispirata dal celebre romanzo di James M. Cain Il postino suona sempre due volte pubblicato nel ’34, è semplice: lui, lei e l’altro, tipico triangolo che identifica i suoi vertici in una coppia che gestisce un negozio e il giovane aiutante che presta servizio nel medesimo locale. Tutto normale se non fosse che a dirigere c’è il György Fehér di Twilight (1990) il quale scrive la sceneggiatura insieme all’amico Béla Tarr, per cui c’è un primo elemento d’attenzione: mai, in tutta la produzione filotarriana, si era dato un accento così prestante alle tematiche sentimentali, magari sfiorate sì, ma la centralità viaggiava sempre per altre istanze; in Szenvedély (1998), almeno dentro la sua prima ora, nella tanto amata pianura ungherese, piena di fango e pioggia scrosciante, palpita una liaison a tre che Fehér riesce a sintetizzare nel prologo [1]: il marito sospetta qualcosa, l’amante (è János Derzsi, attore ne Il cavallo di Torino, 2011) nell’essere obbligato a ballare con la moglie suda freddo ma tiene duro poiché innamorato della donna. I sessanta minuti che precedono l’omicidio illustrano questo andirivieni amoroso che sottolinea le difficoltà dei due fedifraghi a trovare la pace desiderata (la foto che vedete in calce è l’unico istante di tranquillità); il regista magiaro pur rimanendo fedele all’estetica intransigente che tutti gli adoratori di Tarr conoscono, nel mostrare i tentativi di sbarazzarsi del vecchio coniuge utilizza un registro flebilmente ironico che non stona affatto con l’uggiosa atmosfera del film, anzi, ne rinfresca i toni cupi, ossigena la drammaticità di un assassinio premeditato.

È vero che lo stile identifica immediatamente l’appartenenza a questa fetta di cinema ungherese che tanto ci ha fatto stropicciare gli occhi, e il bianco e nero, la dilatazione temporale, le fluttuanti manovre di ripresa e la stiticità verbale sono lì a rimarcarlo, però, anche a confronto diretto con il precedente Szürkület, l’impressione è che a Szenvedély manchi quella solennità tipica della corrente a cui appartiene, soprattutto nella seconda parte dove la vicenda si invischia nelle aule di tribunale per concentrarsi sui sotterfugi, o sui possibili sospetti e conseguenti tradimenti, la morsa dell’attenzione viene meno, delle crepe venano l’esposizione del legame tra i novelli fidanzati, la chiarezza si imbrunisce ed anche la risoluzione dell’inghippo da parte dell’avvocato arriva in modo soft, normale ingranaggio del meccanismo narrativo. È appunto la normalità a tenere con i piedi piantati per terra Szenvedély, il cinema di Tarr è cinema che diventa epica (dell’uomo), ogni sua opera è un trattato di mitologia moderna che ci obbliga ad un’estrema lettura delle istituzioni che costituiscono la settima arte, instillando poi Verità illuminanti sul mondo e sulla realtà che sta oltre lo schermo, certo Passion è un film di Fehér e forse non è corretto ricercare al suo interno l’impronta teorica di un altro autore, ma è questo che qui latita, Szenvedély non è un film che nuota nell’universalità, al contrario si accontenta di stazionare nella provincia e di essere il surrogato di una materia che ha partorito manifestazioni ben più verticali.
Con onestà: ci aspettavamo qualcosina di meglio.
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[1] Il prologo in questione assomiglia un poco (ma poco) a quello de Le armonie di Werckmeister (2000), simile stanza spoglia, simile danza sbilenca.

1 commento:

  1. Be', dai, se mi citi Tarr e Fehér non puoi che invogliarmi non poco a vederlo, 'sto film. Lo cerco, me lo guardo e ripasso per ringraziarti. ;)

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