La carrellata autobiografica non è tale, nel senso: non vi è la benché minima intenzione a celebrare qua (ci mancherebbe, sarebbe stato strano il contrario), piuttosto abbiamo a che fare con brandelli del curriculum rodriguesiano, sicuramente molti avranno colto le pitture che poi campeggeranno sulla locandina di The Ornithologist (2016), mentre molti meno i colibrì e le farfalle meccaniche di Mahjong (2013) - (ci sarà mica da ragionare sul parallelo con le colleghe monarca che viaggiano da un Paese all’altro? E poi: vita-morte, natura-finzione, essenza-trasformazione, andranno considerati accoppiamenti del genere per un’indagine approfondita di Où en êtes-vous? Probabilmente: sì) -, in generale la commistione tra gli stralci presi direttamente dall’archivio casalingo (la prima visita a Venezia per Parabéns! [1997] e la seconda per Il fantasma [2000]), il dietro le quinte notturno di To Die Like a Man (2009) oltre alle continue citazioni all’amico-collaboratore João Rui Guerra da Mata, puntellano un bel percorso di memorie che, per gli ammiratori del regista che lo hanno accompagnato nelle ultime decadi, diventeranno anche un po’ le loro.
venerdì 29 ottobre 2021
Où en êtes-vous, João Pedro Rodrigues?
domenica 24 ottobre 2021
Fotográfia
Ecco, nel movimento, esattamente fisico, della combriccola c’è un po’ il senso di Fotográfia (1973), nonché il senso, e la sua spasmodica ricerca, di un cinema che a noi piace romanticamente immaginare così: lontano dalle paillettes e immerso, fino al collo, nella vita che esorbita incontenibile per provare, quindi, a spiegarcela questa vita, a dirci un paio di cose su di lei, o a spalancarci ulteriori abissi, come se non bastassero quelli che già bisogna fronteggiare. Nelle intenzioni di Pál Zolnay (1928 – 1995) ci potrebbe anche stare un tale slancio, quello che il regista fa del resto è allontanarsi dalla massa per inoltrarsi nella singolarità delle persone, nelle loro storie, e il passepartout che gli permette di accedere ad un siffatto scrigno esistenziale è la fotografia. L’intero film si poggia sul pretesto di fotografare esteriormente degli esseri umani, poveri, poverissimi, gente che ha un tetto sopra la testa e un fazzoletto di terra con cui tirare avanti, per poi, in realtà, fotografarle dentro poiché sono loro stessi, mollate le resistenze, ad aprirsi davanti alla cinepresa. Ben presto la questione fotografica diventa periferica, Zolnay, per mezzo dei suoi giovani che vagano per i paesi, si tramuta in un intervistatore/indagatore che cerca di assorbire più che può da chi incontra. La relativa sorpresa è che, nonostante siano passati quasi cinquant’anni, certi racconti sanno eternarsi e mantengono, oggi, il medesimo carico di disperazione (il riferimento è alla madre assassina che si prende il maggior minutaggio della proiezione), insomma qui ci sono vite e trascorsi complicati da raccontare, delusioni, speranze, amori, ecc., tutta materia narrativa buona per una sceneggiatura.
E infatti, se si vuole muovere una critica (per la serie: ma non hai di meglio da fare che additare una pellicola ungherese in bianco e nero del ’73?), lo si può fare nei confronti del registro adottato che, appunto, si rifà ad un impianto sceneggiaturiale, il che stride con l’idea del film, ovvero il perseguimento della verità. Non è che le varie testimonianze siano finzionalizzate (anche se dei dubbiettini sorgono), quello no, è piuttosto la gestione del fotografo e del suo compare che ci viene proposta in una veste da “film”, ad esempio ci sono molti controcampi sui loro volti che sono lì a sottotitolare lo stupore che provano mentre ascoltano le babushke locali, in generale si avverte l’intenzione di costruire una scena, una sequenza, ed anche se in un territorio inevitabilmente rudimentale Zolnay intensifica, si fa “sentire”, se così si può dire. Ovvio che contestualizzando l’epoca ci sono degli alibi, d’altronde non stiamo parlando di Kubrick, come al contempo appoggio la riuscita di talune scene che, pianificate a tavolino o meno, comunicano ancora qualcosa a noi spettatori del ventunesimo secolo (il vecchietto alle prese con l’apparecchio acustico; il monologo fuori campo della mamma killer con primo piano sulla sua foto nuziale), poi concordo con voi sul fatto che effettuare ripescaggi del genere non c’entra niente con la passione per il cinema ma è pura, limpida, tersa misantropia.
lunedì 18 ottobre 2021
Have a Nice Day
Liu, vero factotum dell’animazione, avrà indubbiamente messo grande impegno in ognuna delle sue tavole e parimenti non riusciamo nemmeno ad immaginare le difficoltà che avrà dovuto affrontare, però il risultato globale parla da sé e tecnicamente Have a Nice Day è proprio povero, passino le ambientazioni che trasmettono un senso di accettabile degrado (siamo nei territori de Il lago delle oche selvatiche, 2019), non passi tutta la concreta esecuzione che palesa un’assenza cronica di fluidità, personaggi mono-espressivi, fondali a tinta unita, automobili che si muovono su binari invisibili e labbra fuori sincrono rispetto al parlato. La bidimensionalità che traspare (e che magari potrebbe essere intesa come un segnale di stile e non come una carenza) è per quanto mi riguarda l’esatto corrispettivo che si rintraccia anche nel materiale narrativo, una fiacca storiella dal carattere pulp che affonda nonostante il salvagente dell’ironia, macchiette malavitose si incrociano con anonime figure sulla scena in un gioco dove ho ravvisato una sequela di forzature e coincidenze pressoché dilettantesche. Sarei uno stolto a chiedere veridicità in un’opera del genere, ma lo sarei egualmente se soprassedessi a difetti così marcati. Segnalo solo una discreta parentesi simil-musicale dalla spinta creativa che inneggia a Shangri-La e un’altra “diversa” con il mare increspato, per tutto il resto Jian Liu ha ancora molta strada da fare.
venerdì 15 ottobre 2021
II
mercoledì 13 ottobre 2021
Dog Men
Senza accanirsi troppo che tanto non ne vale la pena ed il film in sé non lo merita neanche, ci sono carenze evidenti, sia sul piano estetico (non sono esperto di videocamere ma a volte il digitale aumentando la definizione sortisce un effetto di quasi appiattimento), e forse è meglio tacere sugli effetti ben poco speciali usati, praticamente un abbecedario del genere fantascientifico che se fosse stato autoironico avrebbe avuto anche un perché, ma messo così proprio no, che su quello del racconto che non ingrana mai, non accende l’interesse, si appesantisce in silenzi che non ce la fanno ad essere “autoriali”, il bighellonare dei due uomini è statico, mi spiace dirlo: un po’ morto, tanto è che la faccenda non si ravviva nemmeno con l’introduzione di personaggi borderline tipo il cieco o il bandito, ed è meglio non aggiungere nulla sulla poverissima caratterizzazione dell’aliena e sugli strumenti tecnologici (?) che la tengono in contatto con il suo compare, davvero, preferisco sorvolare. E niente ragazzi, a parte sottolineare che Dario e Mirko Bischofberger rafforzano il loro feeling con l’Italia (il film è girato in una cava sull’isola di Favignana, ci sono degli ingressi musicali in italiano, i mangiacani sono un riferimento a certe situazioni che si verificavano in passato nel profondo meridione), non so che altro dire, al massimo segnalo la presenza di due filmati d’archivio che rimandano alla questione della preda e del cacciatore che sì e no attraversa il film stesso, e uno di essi, quello africano, mi ha riportato alla mente Miguel Gomes, poi sono subito rinsavito.
domenica 10 ottobre 2021
Venus
Certo è che qua non siamo nel Dipartimento delle pari opportunità, e se vogliamo fornire un’opinione focalizzata sul film è inevitabile affermare quanto non ci sia francamente niente di imprevedibile, le testimonianze sono largamente pronosticabili per cui è difficile stupirci se una donna dice di aver avuto nella sua vita pochissimi uomini o se un’altra invece afferma di averne collezionati a iosa, non c’è poi particolare sconcerto nel sentir conversare di masturbazione o fantasie erotiche né di orgasmi o scappatelle omosessuali, il fatto è che ritengo sia arduo discorrere davvero della propria intimità al cospetto di esimi sconosciuti perché spesso è complicato farlo perfino con se stessi, e quindi ciò che ne risulta è una sequela un po’ superficiale di aneddoti, pensieri, confessioni e via così per circa un’ora e venti. Brave le due registe ad accendere l’attenzione sulla galassia muliebre (e poco importa se siamo a Copenaghen, è plausibile che in ogni altro luogo dell’occidente avremmo sentito le medesime parole), meno brave nell’espletazione del compito filmico con ulteriore nota di demerito per l’inizio con il posticcio dialogo epistolare e per la fine con il “mettersi a nudo” delle ragazze, ambedue le situazioni ricreate risultano scolastiche e non necessarie.
sabato 2 ottobre 2021
La Nuda
Rimasi lì ancora per qualche settimana ad ascoltare il liquido ticchettio della solitudine che sbatteva contro le finestre, poi, anch’io, me ne andai. Presi un taxi, un treno e una corriera, sotto un cielo di pesca giunsi nel paesino dove era nato mio padre, là dove l’autunno durava per dodici mesi e dove inseguivo la vana illusione di ritrovare me stesso. Se lei fosse stata con me mentre giravo la chiave nella toppa del vecchio casolare di famiglia probabilmente avrei percepito quell’eccitante sensazione di condividere qualcosa di nuovo con una persona vicina, invece all’ovattato clangore della serratura che dopo secoli si rimetteva in moto corrispose solo il clac dei ferri a cui seguì la fuoriuscita di una nuvoletta di polvere e piccole falene cieche. Dentro: la conferma dei miei ricordi infantili: un armadio imponente, in legno scuro come il tavolo, una radio rossa con delle manopole, là in fondo il cucinino, a fianco le scale che portavano al secondo piano, e un rumore: di gocce, anzi no, di passi, che arrivavano lenti, ma non di piedi, bensì di zampe, otto sottili zampe che scendevano i gradini, e un verso che ne conteneva il riverbero di altri mille: chi sei tu? Che ci fai nella mia casa? Immaginai come quel ragno pluri-occhiuto e grosso come un cagnone potesse vedere un tizio che lo disturbava da una lunga tranquillità: ero una minaccia, cercai allora di esporre le mie ragioni: mi scusi per l’irruzione, ma vede, ehm, per il catasto io sono il proprietario dell’immobile, c’è la successione ratificata da un notaio, se nota... ho le chiavi. Alcuni dei suoi occhi si illuminarono di un chiarore: ah, ho capito disse, mi scusi lei se sono sembrato brusco ma sa, di ’sti tempi... ad ogni modo benvenuto, o forse bentornato! Dopotutto, era un ragno gentile e non me la sentivo di sfrattarlo. A quanto pare anche lui aveva un passato complicato, una relazione fallita e un centinaio di figli dispersi sulla montagna erano stati il giusto viatico per rintanarsi in quelle quattro mura scrostate e mandare al diavolo il resto del mondo, il mio proposito non era tanto diverso gli spiegai, dovevo ristabilire un ordine personale e non mi restava che farlo lontano da dove ero vissuto di recente. Così cenammo, lui con un paio di calabroni che si era procacciato al mattino e io con delle mele e delle pere colte nel campo dietro il casale. Ero stanco, svuotato, la casa-fungo, il lavoro, l’insicurezza, l’affitto, lo scoramento, le gambe esili, il suo culo latteo, la spina dorsale che era una cremagliera diretta alla nuca, salii al piano di sopra ed entrai nella camera da letto facendomi largo tra le spesse coltri ragnatelesche, un’amaca serica mi parve il giaciglio migliore per riposare, e mentre udivo il ragno che si lavava i cheliceri fischiettando, il suo viso si materializzò sotto le mie palpebre, delicata visione muliebre, apparizione e sparizione, la pensavo anche quando non la pensavo, come un fiume carsico che scorre nelle viscere e sull’epidermide, erodendomi.
Non c’è più nessuno qua, sono tutti morti.
Non c’è più nessuno a parte il signor Vinscio, aggiunse il mio amico aracnide-xl ingerendo una manciata di mosche per colazione. Fuori: l’alfabeto della memoria: il paese arancione, camminare-ricordare, cumuli e cumuli e cumuli di foglie secche sull’unica strada asfaltata che attraversava l’agglomerato di casupole, tegole pericolanti, tegole mancanti, il fienile dove giocavo da piccolo invaso da una cascata di rovi, sui cavi dell’elettricità che collegavano palo a palo qualcuno aveva posizionato dei dischi di plastica per evitare che i ghiri si trasformassero in ladri acrobati, mentre ripercorrevo questo spazio dolce e malinconico, ogni tanto, dalle erbacce alte quasi quanto me, udivo dei bisbigli, era la voce di mamma che si scambiava un saluto con la vicina, era la voce di papà che cantava insieme ai suoi cugini la vigilia di Natale, era la voce di lei, l’infruttescenza di un dente di leone che al minimo refolo di vento si dissolve nell’aria. Camminare-ricordare-sperare di ricongiungere certe dimensioni smarrite, conchiglie su cui poggiare l’orecchio per riassaporare quell’innocenza che mi pervadeva durante le visite al signor Vinscio, la stessa che ora tentavo di riacciuffare mentre aprivo il cancelletto arrugginito del suo giardino, lo stesso cigolio, solo più acuto, la stessa catasta di legna, solo più marcescente, la stessa porta d’ingresso, solo più scolorita; non potrei dire che dentro era tutto esattamente come allora perché, semplicemente, i ricordi si erano pian piano sgretolati, ma vedendo la stadera in bronzo appesa al muro, il cestino di vimini, il quadretto dal paesaggio nemorale, il bicchiere con due dita di vino rosso sul tavolo, ebbi l’impressione che sì, ero nel posto giusto, e poi il signor Vinscio, in effetti era ancora vivo, o forse non del tutto morto, seduto a tavola parlottava tra sé: sìsì... loro si sono presi... non ci hanno lasciato... hanno ucciso... sìsì... hanno violentato le donne... sìsì... i bambini... gli stivali neri... sìsì... lucidi, e mentre continuava a discutere con dei fantasmi che ogni tanto venivano evidentemente a fargli visita mi schiarii la gola: ehm ehm, e quelle palline bianche appena iridate di celeste rotearono nelle orbite ossute della testa teschio, sotto capelli radi e fini, in una pelle incartapecorita, sottile, velina, mi guardò come se fossi uno dei suoi amici ectoplasmici, e forse non aveva tutti i torti. Al che gli feci la domanda che papà poneva ogni settembre: signor Vinscio, quest’anno dove nascono i funghi? Le labbra, ritiratesi fino alla radice del naso, esibivano una dentatura smagliante, un sorriso o un gelo perenne, i funghi... sìsì... quest’anno... devi andare alla Nuda... sìsì, li hanno portati dietro la chiesa... sìsì... ratata- ratata.... sìsì.... ammassati uno sopra l’altro... sìsì.... un fiume di budella... sìsì. Il crepuscolo che non termina mai e infinite galassie più un là la morbida melodia di un sax, perché non l’ho mai portata qui? Perché non sono riuscito a dare un seguito alle speranze che coltivavamo? Perché non ho almeno tentato di lavorare per un futuro? Perché lei è un coglione, la sentenza del ragnone appeso al soffitto mi ammutolì, aria, aria fresca, lassù uno stormo di uccelli cupi ad ali spiegate, una flotta compatta di croci volanti. Presto sarei andato alla Nuda.
Partii all’alba, sull’uscio, il ragno: per favore, se vede qualcuno dei miei figli dica loro che mi mancano tanto. Imboccai il sentiero contornato da lucciole che non si erano accorte del sopraggiungere di un nuovo giorno e pulsavano panciute dando vita ad una costellazione mobile, non sapevo, o meglio, non ricordavo la strada per la Nuda, dovevo salire, in alto, su per la montagna, laddove gli alberi smettevano di crescere, sul cucuzzolo brullo, gialloverde, pettinato dal vento. Dopo un’ora, o un lustro, o un decennio, sentivo già l’acido lattico tendermi le fibre muscolari, con la schiena scivolai lungo un tronco per riposare, chiudendo gli occhi, aprendoli, richiudendoli, da un altro tronco si spalancò uno sportellino e a mo’ di cucù sbucò un tablet dove in un video scorrevano le immagini ravvicinate di mele, meloni, angurie, manghi, albicocche, nespole, la rotondità, di diverse forme, come una testolina alla fine della carrellata, testolina con trecce e lentiggini, e grembiule floreale, buongiorno buonasera, le monete da riporre nella cassa a fine turno, la giovane garzona del fruttivendolo, un mare di sogni luccicanti nelle pupille, le guance improvvisamente rosse all’ingresso nel negozio di una signora insieme al figlio dalle ginocchia sbucciate, sembrerebbero coetanei, si guardano per la prima di innumerevoli volte a seguire, sono i miei genitori, inconsapevoli del vicendevole destino, amaro e radioso come ogni destino.
Mi ero riposato abbastanza, il pendio si faceva erto, l’intrico di rami e foglie verdi lasciava coriandoli d’azzurro che via via andavano diradandosi per essere sostituiti da un’impenetrabile tetto arboreo, il sentiero era svanito, procedevo per istinto, innalzandomi su radici sporgenti, scavalcando mucchi di pietre umide, sudore lungo le tempie, ghiotta fonte di abbeveramento per dei fastidiosi mosconi che ronzavano pesanti, e zzz e zzz e zzz, tentando di scacciarne un nugolo inciampai e caddi a terra sbattendo la testa contro un sasso appuntito. Bubbolii ovattati, prono sull’erba, intontito, divenni lo spettatore di uno spettacolino messo su da alcune cimici, una di esse, sul palcoscenico di rametti, indossava una mini t-shirt con la mia faccia, e quindi la cimice-me lavorava in un ufficio con altri colleghi, ogni dì una sfida con l’orologio appeso al muro, pratiche da impilare, richieste da evadere, monotonia, a fine mese un bonifico di 1.250 € sul conto corrente, e poi, in un cambio scena, l’insetto-io entrava in un portone, saliva le scale con in mano la ventiquattrore e sul pianerottolo trovava ad attenderlo la moglie-cimice e la figlia-cimice e dopo cena, sotto una coperta scozzese, guardavano la tv fino a che la piccola non si addormentava, così la mettevano a letto e poco dopo anche i coniugi-parassiti si infilavano sotto le coperte spegnendo l’abat-jour: buio in sala: sipario.
Il sangue si era già seccato sulla tempia, puzzavo da morire, affannato provavo l’ascensione verso la Nuda, dovrei quasi esserci pensai, ma nel frattempo ad ovest una gigantesca bocca terrena inghiottì il disco del sole e l’oscurità dilagò ovunque. Un bosco di notte non è più un bosco, è una somma indeterminabile di macchie e di suoni, nere chiazze vive, sibili, frullare d’ali, borborigmi e sguardi, migliaia di sguardi sbarrati, ad ogni altezza. Oltre a: due mandorle scarlatte che si avvicinavano, una specie di grugnito, dall’olezzo poteva essere un cinghiale, sebbene fossi cieco intravidi un repentino spostamento nell’aria atra a cui seguì un dolore assurdo, le sue fauci affondavano nel mio polpaccio, strappavano lacerti di pantaloni e di carne, certo, cercai di divincolarmi scalciando e sbracciando, però era un confronto impari, la bestia mi stava mangiando, e quando la sua fetida bava sgocciolava già sul mio viso pronosticai la possibile fine, invece la belva posò il muso nell’incavo della spalla dicendo con timbro suino: ascoltami bene, questa è la storia del signor Vinscio: non del suo passato, del suo futuro. Una sera, dopo aver trangugiato la solita minestra, si metterà sulla poltrona viola ad osservare la legna che scoppietta nel camino, una scintilla balzerà sul pavimento proprio vicino a dei giornali che in un attimo prenderanno fuoco. Il signor Vinscio non proverà nemmeno a spegnere l’incendio, se ne starà lì seduto, nel mezzo delle fiamme, mentre l’ossigeno si riduce e la poca pelle rimasta gli si scioglie addosso. Al culmine della combustione, tra le vampate, suo fratello ventenne, fucilato da dei fascisti insieme ad altri compaesani, lo prenderà sotto braccio e insieme voleranno dalla canna fumaria, come uno sbuffo di vapore, una nuvoletta grigia.
Di là delle pianure, tra file di frutteti, all’ondeggiare delle felci, nei placidi fondali lacustri, tra i fiori finti dei cimiteri semi abbandonati, sotto l’ombra delle querce, dentro le tane zeppe di processionarie, sul carapace dei granchi di fiume, affianco al corpo molle e glabro dei lombrichi, una sinfonia si sposta di valle in valle, come banchi di nebbia all’alba, e anche io, ora, ne facevo parte. Martoriato avevo trovato posto in un fazzoletto d’erba libero dalla cappa dei rami mentre a est l’enorme bocca disserrava i denti per risputare in alto il medaglione aureo i cui raggi timidi mi accarezzavano docili, sì, a me, sdraiato e pesto, un uomo vitruviano senza proporzioni, smembrato, tocco di carne messo a macerare e in via di putrefazione dotato di una consapevolezza: che non avrei mai raggiunto la Nuda, e lo gridai, un po’ ridendo e un po’ tossendo, al défilé di nuvole lassù.
<<No, non ci arriverai mai>>
Mi ero sbagliato! Oh gioia, oh tripudio, la sua voce ancora, era lei, proprio lei!, strisciante, seducente, verde, a scaglie, muovendosi formava un susseguirsi ipnotico di S, S S S S S S S S, ed eravamo vicini, vicinissimi, ne sentivo il profumo, di muschio, e la lingua biforcuta che vibrava sillabando il mio nome: era splendida, ritta e ondulante, spalancò il palato rosa come la sua fica e all’estremità dei denti uncinati vidi il brillio di due gocce avvelenate. Mi sei mancata tanto, sai, sono venuto qui per cercare ciò che avevo perso, tipico comportamento di chi dà peso a ciò che davvero conta solo nel momento in cui non lo ha più, ho fatto degli errori, non sono stato capace di darti sicurezze, del resto avevi solo bisogno di una persona con la credibilità di dirti che non c’era bisogno di fare drammi, che nulla era compromesso, so di non poter essere quella persona, ma so anche che potrei diventarlo a breve, ho mandato parecchi curricula, li ho perfino consegnati di porta in porta, aspetto risposte e nel frattempo tengo sott’occhio gli annunci immobiliari, mi piacerebbe comprare una casa con vista sul porto, così di sabato mattina, con alle spalle una dura settimana lavorativa, potremo fare colazione guardando le navi da crociera che salpano per il Mediterraneo, che ne pensi tesoro?
<<Vieni, andiamo a fare l’amore>>
Rasoterra, piante basse sulla mia fronte, scivolare uniti nella selva alla base di un castagno, i ricci schiusi appena caduti, le radici e la superficie, lei sale su per le increspature del tronco, si allunga su un ramo e inizia a penzolare bambina, sorridendo. Ho solo la forza di alzare la mano a cui lei maternamente si attorciglia issandomi. Sono felice. Abbiamo di nuovo un nostro quando, ci saranno altre offerte al discount, altre lussuose camere matrimoniali da visionare su Internet, altre passeggiate sulle mattonelle irregolari dei vicoli, o forse ci sarà qualcos’altro di completamente diverso, tipo un figlio, ovvio!, la prosecuzione in sangue e ossicine del nostro noi, il compimento di un ciclo, l’eredità della vita, le responsabilità, l’avvenire, l’invecchiare. Sono nel suo abbraccio freddo, i miei piedi non toccano più il suolo, appeso: a lei, che voluttuosa titilla, divento una protesi rettile, dondolo in sospensione, la sento stringere intorno al collo. Una sciarpa di squame. Ciondolo inerte. La boscaglia si offusca, l’aria si raddensa, sul fusto dirimpetto una placca di metallo quasi illeggibile dice: N DA →, inspiro, espiro, il torace come il mantice forato di una fisarmonica, sgambetto nel vuoto, paonazzo, la sfioro, non la vedo, non vedo niente, la trachea si comprime, la saliva ristagna e comincia a colare da un angolo della bocca.
Mi tieni a te ancora più forte, sei avvinghiata a questo organismo macilento, le vertebre cervicali frantumate, la sclera bianca che invade tutto, la schiuma gorgogliante in bollicine giù dal mento: nodo, rantolio, scatto, nervo, frusta, tremolio, un poco meno, ancora meno, spegnendomi nel silenzio, pace: sono felice, siamo felici.