Ho otto o nove anni e mi
trovo nell’orto, un posto che qui in paese chiamano così da
sempre ma che non ha niente di un orto tradizionale. Per arrivarci
bisogna passare sotto la vota, un archivolto la cui parte
convessa altro non è che il pavimento in travi di una casa
vecchissima e disabitata da almeno mezzo secolo di cui si possono
scorgere attraverso le fessure degli assi marciti dal tempo
bottiglioni impolverati ed altre cianfrusaglie stipate su precari
ripiani di legno, dalla vota penzolano delle lanugini di
ragnatela spessa e fibrosa come il cotone che se non stai attento ti
si impigliano tra i capelli, ma io sono talmente piccolo che queste
stelle filanti tessute da ragni panciuti non mi sfiorano nemmeno e
così arrivo spensierato nell’aia che subito dopo mi si apre
dinnanzi, qualcuno, come ogni anno, taglia l’erba infestante
nonostante nelle tre abitazioni che vi si affacciano non ci sia più
anima viva, poco oltre un mostro di rovi e spine ha già
cominciato a sommergere il muro di una delle case, uno dei miei
incubi più paurosi è svegliarmi d’improvviso in mezzo
ad un groviglio di piante selvatiche nel cuore della notte montana
punteggiata da bisbigli sinistri. Poco più avanti il suolo si
fa leggera discesa e ai lati del declivio il signor Teo ha messo
quattro gabbie con dentro dei grassi conigli che muovono
freneticamente il nasino, ogni volta che vado nell’orto prendo uno
stelo di fieno e stuzzico uno dei conigli fino a quando l’animaletto
non soddisfa la mia stupidaggine di bambino mangiando l’erba secca
con disprezzo verso quell’essere che ha appena disturbato la sua
placida vita nel mondo-gabbia. Superati i conigli bisogna scendere
degli scalini affianco ad un muro a secco tirato su da chissà
chi e che il passare del tempo e la pioggia e la neve e il ghiaccio
hanno bombato come se fosse gravido di un enorme
neonato-pietra-muschio pronto ad essere sparato direttamente
nell’orto. Perché quando vedo davanti a me il muretto
significa che sono lì, in un fazzoletto di terreno che un mio
bisnonno aveva adibito a pollaio e dove per un periodo incalcolabile
la merda delle galline rimestata dalle loro stesse zampette si è
amalgamata all’impiantito naturale rendendolo quello che è
ora: un banco di terra umida, quasi bagnata, e di un nero che non
potete immaginare, e fertilissima nonostante il sole, a causa di due
alti peri posti agli angoli bassi del quadrato terricolo, non arrivi
mai. E io gironzolo affondando i piedi nello spazio di humus,
prendendo manciate di terra fredda che svelano vermi rosei impazziti
alla vista mentale di un gigante come il bimbo che sono, e trovando
strani oggetti sepolti, pezzetti di esistenze passate, cocci, vetri
smussati, una piccola bottiglia con dentro una ciocca di capelli. Ho
solo otto o nove anni e non penso al futuro.
Poi, allo stesso modo in
cui i vermi che disturbo dai loro sogni colliquativi vedono me, io
scorgo ai piedi del muro, proprio tra due grossi sassi, lo strisciare
di una cosa tubolare e marrone, unta e gelida: non finisce più
di scivolare questa biscia, questa vipera, questo serpente che me la
fa fare sotto. Scappo! Su per gli scalini, via veloce dai conigli e
dai loro occhi rossi, oltrepasso i fili-stalattiti di bava ragnesca
che ondeggiano nell’aria al mio passaggio e trovo un approdo sicuro
nel rumore che fanno le mie scarpe da ginnastica sull’asfalto amico
della strada principale e col cuore a mille arrivo a casa e la mia
giovane mamma pesca da un recipiente di plastica azzurro i panni che
sta stendendo su una corda tesa fra una noce e un prugno.
Di recente sono tornato
nell’orto, ho vent’anni di più e molte cose,
inevitabilmente, sono cambiate. Mi illudevo che qui fosse rimasto
tutto come prima ma dopo la vota non sono riuscito a
proseguire, una diga di piante di ogni genere ha creato una barriera
insuperabile: il mio incubo di un risveglio notturno in un posto
simile non se n’è mai andato. Il signor Teo non abita più
in paese perché ha divorziato e credo che abbia cercato di
rifarsi una vita in un paese poco più lontano, i suoi conigli,
invece, resteranno per sempre lì, invisibili ma belli
cicciotti, sepolti sotto una coltre di foglie e spine che li
conserverà per l’eternità. Immagino che il muro in
gestazione sia esploso del tutto, magari in una notte di temporale, e
nel momento in cui ha ceduto è possibile che il mio
serpente abbia ripensato a quando si trovava nel guscio molle del suo
uovo e all’attimo successivo della sua venuta al mondo, al primo
contatto con le sostanze chimiche che costituiscono il pianeta.
Ho imboccato la via verso
casa e una volta sulla strada ho sentito un rumore di passi rapidi e
veloci, ma ero da solo. Mi sono seduto su una panchina di pietra che
dà su un bel panorama collinare, i dolci rilievi parmensi
baciati dal tepore di mezzogiorno erano le gobbe di un drago che
dormiva da millenni. Un uccellino si è poi posato sulla
ringhiera di fronte a me, la frequenza con cui muoveva la testa mi è
parsa fuori dalla concezione del tempo umano. Non so, a volte sembra
tutto così sbagliato, a volte questo scorrere delle cose,
delle persone, dei ricordi, degli affetti, è l’unico modo
per capire che cosa sia la vita (da qualche parte, in un altrove
onnipresente, c’è anche la microscopica stazione ferroviaria
di Framura in una afosa domenica di agosto e mio padre con la borsa
frigo piena di cose da mangiare, e c’è anche negli infiniti
algoritmi di Facebook il video di una canzone di Tracy Chapman).
Mi sono alzato lasciando
su quella panchina un me stesso che rimarrà per sempre lì
così come ci sarà sempre un bambino-me che razzola
nell’orto, ma mia madre non c’era più a stendere i panni e
i miei capelli si stanno facendo sempre più radi.