sabato 20 febbraio 2016

Moebius

Solo l’“affetto” di vecchia data può spingerci alla visione di un nuovo film di Kim Ki-duk, l’eventualità che il suo cinema post-Arirang (2011) possa regalare ciò che in fondo chiediamo ad una visione: un buon film, con tutto quello che può voler dire e non dire, appare una possibilità altamente remota. Dopo il discutibile Leone d’Oro a Pietà (2012), nel 2013 il sudcoreano viene nuovamente accolto nella kermesse veneziana (questa volta fuori concorso) con Moebius, e, forse memore dei fasti di Ferro 3 (2004), opta per la radicale soluzione di eliminare i dialoghi (di recente aveva perseguito la stessa scelta col film d’intermezzo Amen, 2011); la decisione è coraggiosa ed al contempo pericolosa: è lampante notare come il nuovo corso kimmiano, asciugato delle forme liriche che elevavano le produzioni del passato, punti ad un cinema drasticamente semplice, basico, immediato, è come se non ci fosse più niente nel cassetto dei segni (/sogni), Kim è diventato visibile, rozzo (il digitale come una spada che infilza gli attori), ostinato nell’urlare. Qui, per esempio, già nei primi dieci minuti la madre evira il figlio e inghiotte il pene mozzato. La portata di violenza e disumanità, costante e crescente per tutta la durata dell’opera, perisce sotto il crollo di un metodo espositivo trasportato in un eccesso non dovuto, è probabile che se lo script fosse stato maneggiato da Sion Sono il risultato sarebbe stato infinitamente più convincente.

Il sottoscritto imputa a Kim l’imperterrita tendenza a voler incrementare la gittata drammatica scena dopo scena. Se prendiamo il già citato Ferro 3, altro film (quasi) muto che, a onor del vero, non aveva risvolti così tragici ma si fondava su presupposti ancor più irreali di Moebius, era facile carpire la bravura di Kim nella creazione di un mini-mondo dall’impalpabile essenza, sfuggente, leggero (come la famosa bilancia del finale), l’esatto contrario dell’opera sotto esame inzuppata di turpitudini. Nessuno si scandalizza per gli obbrobri messi in atto, allarma, invece, la preoccupazione del regista di edificare il proprio pensiero su una riproposizione senza ossigeno di un medesimo concetto esacerbato di volta in volta come a voler sbraitare sempre più forte, ma ficcarci dentro agli occhi, senza filtro alcuno, l’Idea, non sta a significare la conseguente soddisfazione nel recepirla. La rotolante frenesia di Kim finisce per macinare qualunque cosa gli si pari dinanzi, così, a seguito anche del tacito contesto che obbliga gli attori ad una prosopopea tangente l’imbarazzo, il film dilaga in una sequela di ridicolaggini che, davvero, lasciano interdetti per il grado di demenzialità a cui si rifanno. Mi si potrà dire che era voluto, che Kim aveva contemplato tutto il teatrino grottesco, ma lui non fa “grottesco”, con il realismo che adesso propone è impossibile che il girato possa apparire credibile allo spettatore, l’in-credibilità non fa più parte del suo registro creativo, ciò è un amaro dato di fatto.

Poi dentro ci sarà tutta la psicologia che si vuole, Edipo, evirazione, ecc., ma se la teoria non è affatto supportata come ci si può interessare ad essa? La speranza, molto tenue, è che al pari del ragazzino nel finale il cinema di Kim possa ricongiungersi all’immaterialità, l’Occidente è già fin troppo pieno di schifo per doverlo patire anche nei film orientali.

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