giovedì 25 febbraio 2016

Estamira

Chi pensava che prima di Waste Land (2010) il cinema non si fosse mai inerpicato su per le colline di immondizia della discarica brasiliana di Jardim Gramacho, deve fare i conti con Estamira (2004), documentario carioca diretto da Marcos Prado che rispetto alla collega Lucy Walker si rivela molto più ruvido nell’area delle riprese, non si tratta di mancanza di professionalità (forse il vero e unico scarto è dato dalla qualità dei mezzi tecnici utilizzati) bensì di una precisa scelta registica che tende più che può al reale diventando quasi un filmino vacanziero in un posto dove però nessuno trascorrerebbe le ferie: nuovamente (ma con una carica invasiva maggiorata) ci troviamo in un paesaggio apocalittico, tremendo, nauseabondo, immenso cestino dei rifiuti in continua espansione grazie ai camion che arrivano e rovesciano i propri fetidi carichi, zona franca capace di raccogliere gli scarti dell’uomo e gli uomini scartati dalla società (vivi e non) che lì dentro lavorano, mangiano, dormono mentre intorno a loro proliferano cani randagi, fuochi luciferini, gas sospetti, pozze miasmatiche dalla preoccupante ed assidua ebollizione. Sì, la cartolina infernale che giunge dalla discarica di Rio de Janeiro, immortalata da Prado all’incirca un decennio prima di Walker, è quello che forse non ci si attendeva, e rivelandosi così grezza e sgraziata perde di qualunque filtro per manifestarsi nella sua naturalezza, tremenda e allucinante.

Ma che lo si creda o no una volta appurato il contesto, il film di Prado smentisce le supposizioni che lo vorrebbero esclusivamente come lavoro di denuncia o ritratto sociale della totale povertà, penetrando nella vita di Estamira, catadores storica dal passato travagliatissimo, prende le distanze dagli obiettivi descrittivi tracciando un arco veramente ampio che comprenderà anche la disgrazia della miseria vissuta e raccontata da diversi testimoni e parenti di Estamira, ma che sa andare oltre trasformandosi in opera ibrida (ne valgano come esempio quelle immagini-inserto in un granuloso bianco e nero), calderone di suggestioni e riflessioni prodotte da un’unica fonte: Estamira, una donna con alle spalle due matrimoni falliti, tre figli, violenze di vario genere, stupri, che come uno tsunami disserta con fervore su questioni che sembra impossibile possano uscire dalla sua bocca sdentata. Perché Estamira parla di quella complessità che sostanzia l’esistenza del nostro pianeta, lo fa in maniera scombiccherata infarcendo ogni proposizione di pennellate fuori da qualunque schema (le comete, il padre-astrale, il controllo remoto) dimostrando da una parte i gravi problemi psichici di cui è sia afflitta che consapevole, e dall’altra una sorta di logica follia che la rende una predicatrice in una valle di cenere dove le uniche orecchie che stanno ad ascoltarla sono piene di alcool fino ai timpani.

È ovvio che l’Estamira che inveisce contro dio o che si smarrisce negli intercapedini del suo cervello dicendo di essere diabolica ma mai e poi mai perversa, sputacchiando e sbarrando gli occhi, è il risultato di un percorso esperienziale indicibile, mostruoso, il che la fa assomigliare ad un altro detrito-umano spiato dal cinema come la Vanda Duarte di Pedro Costa, anche Estamira è una vittima della miseria, del raccattare tra la spazzatura del cibo sott’olio e sostenere che sarà buonissimo una volta cucinato, con la basilare differenza che l’emarginata brasiliana ha saputo costruirsi una corazza capace di sondare ciò che in fondo riguarda noi tutti, filosofeggiando con teorie disarticolare e incomprensibili, profeta di favela senza discepoli, un Ulisse spiantato che urla “non posso venire ora” alle sirene immaginarie di un mare furibondo.

Estamira Gomes de Souza è morta il 28 luglio del 2011, la discarica di Jardim Gramacho è stata chiusa nel giugno 2012.

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