martedì 2 febbraio 2016

Saint Laurent

Prefazione: prima del film non sapevo niente di niente a proposito di Yves Henri Donat Matthieu-Saint-Laurent, né della sua vita né della sua attività artistica, parimenti non sapevo e non so tuttora niente di moda e di storia della moda. Questo per avvertire i lettori di una possibile presenza di castronerie nelle righe sottostanti.

Analizzare Saint Laurent (2014) attraverso la chiave dell’Identità, architrave dell’intera filmografia bonelliana, è un procedimento che per me non porta ad un risultato particolarmente appagante. Tuttavia le osservazioni di Manuel Billi (link), pur non condividendole in toto, sono molto interessanti perché il recensore mette argutamente in evidenza la traslazione identitaria da uomo di successo a mero brand acquisito da terzi, ciò è evidente e in un certo qual modo potremmo vedere un proseguimento concettuale nel cinema di Bonello, al contempo è altrettanto evidente che Saint Laurent si rivela per gran parte della sua durata l’opera più lineare del cineasta francese, quella che risponde in modo disciplinato alle leggi del mercato, ovvio che non dobbiamo confrontarci con la patina massificante del mainstream perché Bonello è un Autore vero ed anche in una manifestazione docile getta dei semi, però la mancanza di un pilastro teorico fondante lascia il film in balia degli eventi storico-biografici piuttosto che applicare un’idea al mezzo di espressione e lavorare su di essa. Se pensiamo a Tiresia (2003) o alla vetta House of Tolerance (2011), film-studio dalla seducente polisemia, il biopic sul celebre stilista nato in Algeria non regge il confronto, anche perché nell’illustrazione dei fatti andiamo a scontrarci con i tipici episodi di uomo tutto genio e sregolatezza, e quindi condotta dissoluta, fragilità, narcisismo e via dicendo. Niente di stupefacente, insomma.

Doveroso però riportare anche lo sparigliamento che avviene dopo circa novanta minuti di girato. Qui entra davvero in scena un po’ di quel Bonello che apprezziamo e allora ecco la messa in fuga dell’uniformità narrativa: con lo schianto esistenziale di YSL (storie di droga, depressione artistica, ecc.) la pellicola subisce uno smottamento interno. I buchi temporali crivellano la storia facendoci compiere progressivi salti in avanti e repentini passi all’indietro, il flipper dell’ultima porzione ravviva ed infiamma: di più: sale in crescendo verso i preparativi della sfilata conclusiva che nel compiersi viene esposta con la fastosità tipica di quel mondo, e Bonello rincara affidandosi ad un quadro suddiviso in split-screen che fa proliferare le immagini, il tutto senza risultare lezioso nonostante il contesto sia così laccato. Ma è nella chiosa finale che il regista sa porre l’accento maggiormente gratificante, mettendosi lui stesso nella diegesi (è uno dei tre giornalisti che confabulano su come titolare il giornale dopo la presunta morte di Saint Laurent) diventa testimone dello spettro artistico dello stilista, eternandolo nel luminoso primo piano che giunge alla conclusione. E da lì all’agiografia la distanza si fa sottile.

Postfazione: in sintesi mi sento di proferire che: per coloro i quali sono interessati alla vita di Yves Saint Laurent allora il film in questione susciterà non poca attenzione (del coetaneo Yves Saint Laurent di Jalil Lespert si parla malino, quindi meglio orientarsi su questo), per quelli che invece hanno più a cuore le sorti cinematografiche di Bertrand Bonello allora il discorso cambia, la piena soddisfazione non è garantita, ma una deviazione dal percorso autoriale è elargibile.

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