lunedì 29 febbraio 2016

Stingray Sam

Per il suo secondo film Cory McAbee riprende l’originale mondo che aveva creato ex novo con The American Astronaut (2001), un rimodellamento con annessa fusione di forme e generi, cinema “artigianale” che non ha vergogna di mostrare la propria esilità e che al contrario ne fa un vezzo: tutto è puerile, basilare, disposto a rivelare l’artificio, e questo tutto funziona perché McAbee è consapevole delle azioni che compie; dalla storia che rappresenta l’archetipo narrativo per eccellenza, quello dell’eroe che deve salvare la principessa segregata dal villain, alla fantascienza d’ingegno dove una navicella spaziale è chiaramente un modellino-giocattolo, Stingray Sam scorre con amabile leggerezza per merito di un valore da non trascurare: l’autoironia.

Il fatto che McAbee sia il primo a non prendersi sul serio (è lui l’attore protagonista) parodiando la figura dell’eroe (e lo si dice già nella sigla d’apertura che Stingray non è un eroe, lui è semplicemente un cantante lounge), facendogli compiere gesti non-da-eroe (la ridicola stretta di mano col compare), rendendolo sotto un certo punto di vista uno sconfitto dato il divertente finale con la bimba, permettono al film di acquistare una levità d’alto profilo, una capacità di saper intrattenere pur avendo una sostanza aeriforme: è qui, in una piccola produzione indipendente come Stingray Sam, che l’essenza diventa aspetto, piacere nell’assistere alla strampalaggine delle parentesi musicali, agli inserimenti finto-archivistici di collage altrettanto fintamente agèe, ad una particolare struttura di stampo seriale (sei episodi con sigle che aprono e chiudono il singolo segmento) in grado di fidelizzare in appena sessanta minuti lo spettatore. Ottimo lavoro Cory.

Nessun commento:

Posta un commento