Vik Muniz, rinomato
artista brasiliano stabilitosi da tempo a New York, ritorna nella
patria d’origine, precisamente nell’enorme discarica di Jardim
Gramacho situata a Rio de Janeiro, con l’idea di coniugare in un
ambizioso progetto tre aspetti fondamentali: l’arte, i catadores
e la spazzatura.
Waste Land (2010),
documentario dal curriculum pieno di prestigiosi riconoscimenti
(Nomination all’Oscar, Berlino, Sundance) e diretto dalla prolifica
londinese Lucy Walker, si apre esplicitando a chiare lettere che al
mondo Muniz è “il più importante e conosciuto artista
nato in Brasile” (queste le parole esatte del David Letterman
carioca), tuttavia il focus della pellicola è ben lungi dal
sfornare un biopic su di lui o sulle sue produzioni e ciò lo
si intende con l’arrivo nella discarica che lascia l’eloquenza
alle immagini: vediamo colline di rifiuti che sorgono di continuo
grazie a camion che svuotano il loro contenuto dinanzi ad un esercito
di brulicanti essere umani con la pettorina gialla, i catadores
(raccoglitori, o meglio: riciclatori), che si avventano
sull’immondizia cercando del materiale riciclabile da rivendere per
riuscire ad intascare qualche misero soldo.
Si profila ben presto
l’idea che se c’è una biografia essa è proprio
quella del luogo nauseabondo qui ripreso e delle persone che vi
lavorano all’interno, e in effetti la mdp di Lucy Walker nel
seguire gli “incontri preliminari” di Muniz con alcuni
riciclatori tratteggia dei profili umani le cui vite sono segnate
dalla povertà, il che probabilmente non lascerà di
stucco visto che tutti sanno cos’è una favela e quale
sia il tenore esistenziale di chi la abita, ad ogni modo i ritratti
di miseria sono effettivamente tali e vedere questi uomini costretti
a grufolare in un girone dantesco dove gli scarti della società,
o magari perfino i loro stessi scarti, sono il pane quotidiano che
permette di tirare avanti, beh, indubbiamente fa pensare, pensare e
pensare ancora.
Il proposito di Muniz
arriva subito dopo il disegno antropologico: una volta scelti i suoi
“soggetti” le intenzioni si dispiegano come artistiche (La
Morte di Marat) ma anche e soprattutto umanitarie. Al di là
delle questioni economiche (con la vendita delle opere i protagonisti
delle stesse hanno potuto abbandonare il lavoro alla discarica e
realizzare i propri sogni, anche se qui sorge una domanda: e tutti
gli altri raccoglitori?) il suggerimento da afferrare e che si legge
nelle lacrime di coloro che fino a quel momento non avevano idea di
cosa fosse l’arte contemporanea, è di come quest’ultima
diventi nel giro di qualche giorno il salvagente della Vita: l’arte
che assorbe tutti i mali e che riabilita nel quotidiano,
nell’intimità (uno di loro dirà che prima di
incontrare Muniz il fatto di lavorare a Jardim Gramacho lo faceva
vergognare molto mentre ora ne andava fiero), e che, grazie alla sua
forza (dell’arte), è capace di riscattare anche
l’immondizia, la quale servendosi di un potere del contesto molto
duchampiano può passare con disinvoltura dai mucchietti
puzzolenti in Brasile ai muri di un museo inglese.
Sigillo col finale che
chiude il cerchio: il riscatto si compie nello stesso studio
televisivo dell’inizio, Tião,
presidente dell’associazione, sottolinea davanti alle telecamere il
proprio lodevole status, e la parabola lacrimevole può quindi
concludersi.
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