venerdì 20 novembre 2015

Bad Family

Daniel (il figlio che ha vissuto col padre) incontra dopo parecchio tempo la sorella Tilda, che invece ha vissuto con la madre, a causa della morte di quest’ultima. Tra i due nasce un’amicizia che insospettisce di brutto il padre.

È il tintinnio di un carillon a fare da bretella fra i rimpalli emotivi di questa riunione famigliare, cellula molto vicina all’implosione scritta e diretta dal regista finlandese Aleksi Salmenperä e finanziata dall’istituzione Kaurismäki, che punta l’indice sul ruolo del papà, uomo dalla vita encomiabile e dal lavoro altrettanto ammirevole (è un giudice), che però alle prese con una ricostruzione inaspettata del nido famigliare (eccetto la moglie, rimpiazzata da una nuova compagna) non riesce ad essere più super partes, si smarrisce letteralmente in un vicolo cieco e paranoico che non fa altro che mettere in luce la sua inadeguatezza come genitore; ciò è esternato abbastanza bene dal regista il quale suggerisce, forse, che Mikael anche nelle vesti di figlio non si sente affatto comodo visto che il suo di padre è una specie di automa anaffettivo. Purtroppo non si può dire che le mere azioni che svolge per tentare di sbrogliare i propri dubbi siano convincenti quanto la crisi del suo status perché nel vederlo sparare in aria un colpo col fucile per un banale fraintendimento o piazzare maniacalmente una videocamera nella stanza dei ragazzi, il rischio è quello di provocare una forma di comicità involontaria che di certo non fa bene alla pellicola, per il sottoscritto l’errore commesso da Salmenperä è quello di aver dato un tono così austero, drammaturgicamente rigido, che le note dalle potenzialità ironiche spiccano per contrasto con il mood in cui sono intrecciate, ma è ovviamente un contrasto dall’effetto negativo poiché ragionando all’opposto non è che sul piano del dramma vi siano cose veramente memorabili, un limbo sonnolento appare la dimensione più adatta in cui inquadrare Paha perhe (2010).

Anche nel rapporto pseudo-incestuoso fra Dani e Tilda il torpore nordico prende il sopravvento: l’intesa confidenziale è patina banalizzante, la malizia è d’accatto, si registra a livello contabile ma latita il possibile feedback dello spettatore, quelle che vorrebbero essere delle impennate, dei graffi che rimangano, sono moine sedute dove pesa sulle loro spalle un ordito tramico dalla lettura profetizzabile (davvero si può credere anche solo per un attimo che i due riescano a coronare il piano studiato?), che si inaridisce nelle magre asperità padre-figlio/a fatte confluire in maniera per nulla convincente in un finale ammosciato dalla svolta simil-tragica che “grazie” al finto rapimento sortisce l’effetto contrario, è ancora una questione di credibilità: difficile contemplare in un paesaggio filmico (ma anche personale se guardiamo il padre) così piatto un’accelerazione pressoché estranea, senza fondamenta, che fa traballare non poco (c’era davvero bisogno dell’episodio delle dita mozzate?) e suggerisce un pensiero cattivello: di Kaurismäki oltre ai soldi c’era bisogno del suo cinema capace di unire territori divergenti con la semplicità propria dei Grandi, posizione a cui Salmenperä, stando a Paha perhe, non è evidentemente ancora giunto.

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