Mi risulta impossibile
esprimere concetti originali su Wu wu mian (2015) poiché
quanto avrei da dire l’ho già ampiamente sottolineato affrontando
sia Walker (2012) che Journey to the West (2014), ed
una tale personale tendenza a non trovare nuovi appigli
interpretativi per rendere ciò che state leggendo diverso da ciò
che avete già letto è sintomatico di come il progetto “monaco
errante” di Tsai Ming-liang sia un’idea chiusa e autoreferenziale
di cinema oltre che, e qui la ferita si presenta immedicabile,
ripetitiva in un modo che ti delude proprio: Tsai da buon auteur
può permettersi di filmare i suoi capricci più intransigenti ma,
eccheddiamine!, l’importante è che partorisca sempre buoni film a
prescindere da quale sia il formato, la tecnica, la storia o la
non-storia che li sostanzia. Ora, con l’ennesima riproposizione di
Lee Kang-sheng in outfit monacale che bradipescamente passeggia in
una città percorsa ad una velocità supersonica si dà una lettura
facile dell’antitesi che fonda l’intero disegno, così come è
facile l’accostamento tra i minuti iniziali con Lee che avanza
flemmatico su un ponte e il successivo cambio scena con la camera di
Tsai posizionata su un treno che fende la metropoli sberluccicante,
onestamente non mi aspettavo che il regista taiwanese potesse
scivolare nel manifesto, nel lampante, impressioni che se inserite
nella cornice iterativa precedentemente vista incrementano di non
poco il carico di insoddisfazione.
Potrete pensare che
insomma, non sarà l’avvicinare due sequenze visibilmente opposte
ad inquinare il gradimento spettatoriale, certamente no se non fosse
che No No Sleep dura un trentaquattro minuti di cui quindici
si concentrano proprio sull’esposizione del suddetto incompatibile
binomio. Il film non si solleva nemmeno dopo perché Tsai, sulla
scorta di Journey to the West, pone un altro essere umano
nell’orbita del religioso tartarughesco, un tempo avremmo potuto
sperticarci in lodi enfatiche sulla capacità mingliangana nel
modellare artisticamente incontri fra uomini soli (immagino il me
stesso di un tempo battere sulla tastiera queste parole: “… e
nella fissità del quadro all’interno della piscina si è quasi
spinti ad avvicinare le due anime sullo schermo, a desiderare che il
cinema possa essere ancora un luogo di unione”), però, purtroppo o
per fortuna, le cose cambiano irrimediabilmente e nello sfiorarsi tra
Lee e l’altro tizio di lirismo ne ho visto ben poco, ciò che si
vede è un più prosaico atto onanistico di un direttore d’orchestra
che continua a concedere bis senza che nessuno glieli chieda, e sulla
debolissima immagine contrapposta del finale dentro l’albergo
capsulare dove il giovane non prende sonno (“ooooh, magari sta
pensando a Kang-sheng ”)
mentre il protagonista dorme della grossa, non si riesce ad
aggiungere niente, se non uno sbadiglio.
P.S.: questo
commento risale all’estate del 2017 (sì, avete letto bene) e ad oggi
Tsai ha dato alla luce altri esemplari del suo cinema. In tutta onestà
non so se li vedrò mai, ad ogni modo sarei ben felice,
eventualmente, di rimangiarmi ogni parola del presente scritto.
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