Certe volte mi incapponisco nelle piccole cose, nei frammenti, nei dettagli. È più forte di me. Pur riconoscendo che nel film ci sono momenti di maggiore importanza, io non riesco a togliermi dalla testa quel minuto scarso di buio che appare all’inizio del film accompagnato da una musica soave. Un segmento piccolissimo in confronto alle due ore e passa di girato, ma che quando termina con quel crescendo di strumenti apre le porte ad un dramma intenso e intriso di dolore.
Non solo: quei primissimi minuti sono, secondo la mia interpretazione, un flashforwrad che puntuale ritorna nel finale quando Selma, oramai sulla forca, intona l’ultima, o meglio la penultima, straziante canzone dedicata a suo figlio Gene. In quel momento von Trier ci ricongiunge all’incipit dove quella schermata nera altro non è che la visione soggettiva (e uditiva) della protagonista. Selma sente una melodia che gli altri, nel contesto filmico, non riescono a sentire. Accade soltanto nella sua mente, è come se la cecità le permettesse di vedere attraverso la musica. Notate l’ossimoro: “il buio che fa vedere”, l’oscurità rivelatrice. Sarà un dettaglio quella breve sequenza iniziale, eppure sono riuscito a Vedere ciò che sarebbe accaduto, non con gli occhi, ovviamente, ma con il cuore. O qualcosa di simile.
E a proposito di cuore, la suddetta Trilogia si completa così con Dancer in the Dark, il migliore dei tre a mio modesto parere.
Il bello è che l’impianto registico non si discosta poi molto da Le onde del destino (1996): stessa camera a spalla, identico montaggio impercettibilmente scattoso, simile fotografia un po’ meno granulosa. Ma se il film con la Watson non l’ho minimamente digerito, questo con Björk ha magicamente pizzicato le corde giuste fin da subito.
Le motivazioni non sono facili da rintracciare: potrei difendermi dicendo che la cantante islandese è strepitosa nel ruolo di Selma e riesce a comunicare con i suoi passi incerti più della sua “collega” Bess, ma è pur vero che l’attrice britannica ha vinto un Oscar per quel ruolo e quindi tanto male non doveva essere andata.
Allora potrei dire che era dai tempi di The Kingdom (1994) che von Trier non si preoccupava così tanto della storia raccontata piuttosto che del modo in cui raccontarla (in ogni caso la ricerca estetica è sempre maniacale, ma ‘sta volta non scavalca la narrazione), eppure sono macroscopiche alcune facilonerie della sceneggiatura.
Potrebbero essere dunque gli intermezzi musicali? Potrebbero. Tali sequenze sono molto significative sia dal punto di vista della diegesi (come dicevo poc’anzi sono tutte scene che Selma immagina, o forse vede nel buio dei suoi occhi) che della tecnica utilizzata (sono gli unici momenti in cui la mdp è ben fissata e non se ne va in giro sulla spalla di qualche operatore) – fra le altre cose nel finale, durante l’ultima canzone, le riprese abbandonano la geometria dei precedenti stacchetti musicali per omologarsi alle tremolanti inquadrature del film salvo poi salire dolcemente in verticale per morire in quella schermata nera da dove tutto era iniziato, senza musica però, d’altronde Selma non c’è più per poterla sentire, e noi con lei –.
Potrebbero essere queste, insieme a molto altro, le ragioni che mi hanno fatto apprezzare Dancer in the Dark, ma forse le vere motivazioni non possono essere trascritte qui. Non è possibile tradurre l’alfabeto del cuore, e al contempo non lo si può dimenticare.
Guardate questo film. Ad occhi chiusi.
Non solo: quei primissimi minuti sono, secondo la mia interpretazione, un flashforwrad che puntuale ritorna nel finale quando Selma, oramai sulla forca, intona l’ultima, o meglio la penultima, straziante canzone dedicata a suo figlio Gene. In quel momento von Trier ci ricongiunge all’incipit dove quella schermata nera altro non è che la visione soggettiva (e uditiva) della protagonista. Selma sente una melodia che gli altri, nel contesto filmico, non riescono a sentire. Accade soltanto nella sua mente, è come se la cecità le permettesse di vedere attraverso la musica. Notate l’ossimoro: “il buio che fa vedere”, l’oscurità rivelatrice. Sarà un dettaglio quella breve sequenza iniziale, eppure sono riuscito a Vedere ciò che sarebbe accaduto, non con gli occhi, ovviamente, ma con il cuore. O qualcosa di simile.
E a proposito di cuore, la suddetta Trilogia si completa così con Dancer in the Dark, il migliore dei tre a mio modesto parere.
Il bello è che l’impianto registico non si discosta poi molto da Le onde del destino (1996): stessa camera a spalla, identico montaggio impercettibilmente scattoso, simile fotografia un po’ meno granulosa. Ma se il film con la Watson non l’ho minimamente digerito, questo con Björk ha magicamente pizzicato le corde giuste fin da subito.
Le motivazioni non sono facili da rintracciare: potrei difendermi dicendo che la cantante islandese è strepitosa nel ruolo di Selma e riesce a comunicare con i suoi passi incerti più della sua “collega” Bess, ma è pur vero che l’attrice britannica ha vinto un Oscar per quel ruolo e quindi tanto male non doveva essere andata.
Allora potrei dire che era dai tempi di The Kingdom (1994) che von Trier non si preoccupava così tanto della storia raccontata piuttosto che del modo in cui raccontarla (in ogni caso la ricerca estetica è sempre maniacale, ma ‘sta volta non scavalca la narrazione), eppure sono macroscopiche alcune facilonerie della sceneggiatura.
Potrebbero essere dunque gli intermezzi musicali? Potrebbero. Tali sequenze sono molto significative sia dal punto di vista della diegesi (come dicevo poc’anzi sono tutte scene che Selma immagina, o forse vede nel buio dei suoi occhi) che della tecnica utilizzata (sono gli unici momenti in cui la mdp è ben fissata e non se ne va in giro sulla spalla di qualche operatore) – fra le altre cose nel finale, durante l’ultima canzone, le riprese abbandonano la geometria dei precedenti stacchetti musicali per omologarsi alle tremolanti inquadrature del film salvo poi salire dolcemente in verticale per morire in quella schermata nera da dove tutto era iniziato, senza musica però, d’altronde Selma non c’è più per poterla sentire, e noi con lei –.
Potrebbero essere queste, insieme a molto altro, le ragioni che mi hanno fatto apprezzare Dancer in the Dark, ma forse le vere motivazioni non possono essere trascritte qui. Non è possibile tradurre l’alfabeto del cuore, e al contempo non lo si può dimenticare.
Guardate questo film. Ad occhi chiusi.