“Ricostruzione” è un concetto importante per il film perché inizialmente Dante voleva incentrare il suo lavoro sulla ricostruzione dell’Aquila, ma la natura elastica dell’opera ha conglobato in sé l’avvenuta di un’altra catastrofe che il regista, mosso da intenzioni pressoché impossibili da decifrare per noi che non sappiamo cosa significhi davvero quando la terra trema (si è recato lì per solidarietà? Per paura? Per un sottile fascino?), è andato a catturare venendo alla fine assorbito dal reticolo di storie umane e ricordi che da Amatrice, Norcia e gli altri paesi disastrati si irradiano e sempre in loro convergono. Solo che, per via di una realtà frammentata marchiata da una burocrazia che allunga i tempi, Dante si è spesso trovato ad un punto morto del suo percorso ed ogni volta è stato costretto a ricostruire il tragitto e la meta, per farlo si è servito dei mattoncini che nessun terremoto gli ha buttato giù, come il vecchio amico Paolo, come il nuovo amico Stefano, una sorta di alter ego di Emiliano poiché impegnato nell’utopica edificazione di un centro commerciale nonché uomo colpito dalla freccia di Cupido in un contesto inatteso. La sostanza di Appennino è dunque costellata di diramazioni, di interruzioni, di stimoli che pur prendendo rotte singolari alla fine si immettono in una grande collettività poiché, come Dante stesso afferma, il terremoto è un dramma collettivo e per provare a capirlo e, in seconda battuta, per fare in maniera che divenga comprensibile anche a noi, lo ha tradotto in una sequenza di suoni e di immagini, ha usato il cinema per interpretare il caos, il che dà alla settima arte un piacevole attributo romantico, e se ascolterete le splendide riflessioni conclusive ne avrete la conferma.
Deserto particular - Aly Muritiba
7 ore fa