domenica 10 aprile 2022

Appennino

Sono un po’ combattuto nel riordinare idee e pensieri adesso che la visione di Appennino (2017) è terminata, l’area dei dubbi si colloca esclusivamente nel settore strutturale del film, magari sbaglierò ma io vorrei sempre assistere ad un qualcosa che, pur avendo una sua continuità ed un suo trascorso artistico, sa rinnovarsi in ogni manifestazione esteriore, qui questo ragionamento non è applicabile perché il sistema autoriale di Emiliano Dante è lo stesso di Habitat: Note personali (2014), e se dico che è lo stesso, be’, parliamo proprio di una copia carbone che ripresenta nuovamente e in modo pedissequo tutto l’apparato formale del documentario sul sisma aquilano, e quindi uso del bianco e nero, inserti animati disegnati dal filmmaker stesso, voce off narrante, scansione diaristica degli eventi, impiego di un conto alla rovescia sovrimpresso che rende il titolo in questione un lungo countdown. Il fatto è che anche l’argomento trattato è il medesimo, ancora un terremoto, nello specifico quello che colpì la zona di Amatrice tra il 2016 ed il 2017, a cui Dante non fa mancare il correlato ritratto umano-resistenziale dei sopravvissuti. Eppure, al netto di una ripetizione di stile e temi, è come se in fondo è giusto che Appennino sia stato fatto così, e lo è perché colui che c’è dietro la videocamera è un ragazzo che si chiama Emiliano, uno che ha semplicemente cercato di mitigare la tragedia vissuta attraverso il filtro del cinema, sicché in un’esposizione in così prima persona non viene meno una preziosa sensibilità nell’osservare il mondo, o ciò che rimane di esso, in un processo che proprio non ce la fa a non essere profondamente intimo, sofferto, di Emiliano, e poi, ma solo poi e in una parte che non può che essere minima, anche del pubblico.

“Ricostruzione” è un concetto importante per il film perché inizialmente Dante voleva incentrare il suo lavoro sulla ricostruzione dell’Aquila, ma la natura elastica dell’opera ha conglobato in sé l’avvenuta di un’altra catastrofe che il regista, mosso da intenzioni pressoché impossibili da decifrare per noi che non sappiamo cosa significhi davvero quando la terra trema (si è recato lì per solidarietà? Per paura? Per un sottile fascino?), è andato a catturare venendo alla fine assorbito dal reticolo di storie umane e ricordi che da Amatrice, Norcia e gli altri paesi disastrati si irradiano e sempre in loro convergono. Solo che, per via di una realtà frammentata marchiata da una burocrazia che allunga i tempi, Dante si è spesso trovato ad un punto morto del suo percorso ed ogni volta è stato costretto a ricostruire il tragitto e la meta, per farlo si è servito dei mattoncini che nessun terremoto gli ha buttato giù, come il vecchio amico Paolo, come il nuovo amico Stefano, una sorta di alter ego di Emiliano poiché impegnato nell’utopica edificazione di un centro commerciale nonché uomo colpito dalla freccia di Cupido in un contesto inatteso. La sostanza di Appennino è dunque costellata di diramazioni, di interruzioni, di stimoli che pur prendendo rotte singolari alla fine si immettono in una grande collettività poiché, come Dante stesso afferma, il terremoto è un dramma collettivo e per provare a capirlo e, in seconda battuta, per fare in maniera che divenga comprensibile anche a noi, lo ha tradotto in una sequenza di suoni e di immagini, ha usato il cinema per interpretare il caos, il che dà alla settima arte un piacevole attributo romantico, e se ascolterete le splendide riflessioni conclusive ne avrete la conferma.