Quand je serai
dictateur (2014) è un’apparizione che ci rivela con
cristallina bellezza la plasmabilità di un cinema che in
manifestazioni come queste disarma per la sua alta essenza e che al
contempo ne esalta le pressoché infinite vie d’accesso
sottolineando, a pieno titolo, di come un film non abbia minimamente
bisogno di strutture rappresentative per potersi definire, appunto,
Film. Perché quello che trasuda dal progetto della regista belga
Yaël André è che il cinema inizia quando ci alziamo dalla sala e
stacchiamo gli occhi dallo schermo in quanto, potenzialmente, tutto
ciò che ci circonda può diventare cinema, perfino dei
filmini amatoriali dimenticati in qualche polverosa soffitta, certo,
per far sì che delle anonime testimonianze di vita ordinaria si
trasformino in un oggetto artistico c’è bisogno di una mente che
abbia il controllo sulla materia, non per niente la André in
suddetta ottica compie una grossa operazione manifatturiera sia nel
campo del sonoro (magari lo si nota poco ma gli effetti acustici sono
oculatamente inseriti nel presente) che in quello narrativo (laddove
una narrazione del genere, dislocata dalle immagini eppure in grado
di formare un potente flusso saldato ad esse, è una cosa
straordinaria), ed il risultato a cui giunge è un gioiello che quasi
commuove per le zone profonde in cui riesce a penetrare, e, lo si
sappia, non parliamo di un’opera seminale perché Chris
Marker è morto ma non morirà mai, tuttavia, pur
appartenendo alla cerchia dei film di montaggio, la sensazione è
quella di riacquisire una verginità perduta nel tempo per colpa di
molte, troppe, superflue visioni.
Come Un’ora sola ti vorrei (2002) o come – in parte – Elena (2012), altre
due pellicole girate da donne dove dei filmati archivistici si
trasformano in altro, anche Quand je serai dictateur possiede
un dispositivo che è in grado di risignificare le innocue riprese in
Super 8 d’antan, e, più precisamente, l’altro che si
palesa è una storia enorme, sconfinata, che contiene a sua volta
altre storie le quali si riconducono a tutte le vite possibili della
voce narrante, infinite ed immaginate poiché il film è a tutti gli effetti
un magnifico slancio immaginifico che si serve del mezzo
cinematografico per sfuggire alla noia di un paesino vicino a
Bruxelles, raccontare come
vivere, e vivere come immaginare: è l’attraversare il multiverso
nel tempo di novanta minuti assistendo alle eventualità
dell’esistenza, a proiezioni di sé improbabili, fantascientifiche,
utopistiche: “quando sarò felice”, e nell’autoritratto che
moltiplica l’Io con tempere e sfumature autunnali, calde e
melanconiche, c’è anche la costante ricerca di una controparte
maschile, Georges, che, proteiforme, torna e ritorna in ognuno dei
mondi paralleli, ma che mai rimane e che sempre sfugge, forse
inghiottito dalla follia, forse ologramma di un sentimento perduto:
è l’amore, un altro fattore che implementa ciò che la André
riesce ad esprimere con dirompente delicatezza, che, essendo amore, è forza dei
ricordi i quali, e qui sta il vero splendore, non si riferiscono per
forza a ciò che è stato, guardando Quand je serai dictateur
non ho mai avuto così nostalgia del futuro.