Dentro Las letras
(2015) c’è una questione sotterranea svelata soltanto
nei titoli di coda che in realtà non è sotterranea
affatto perché la storia di Alberto Patishtán è
centrale, è un perno che fa roteare tutto l’impianto di
Pablo Chavarría Gutiérrez. Eppure, nonostante questa
apertura politica e inaspettata che ci viene data nel finale, il film
del giovane regista messicano si era comunque costruito una sua
precipua indipendenza. Da cosa? Ma dai significati, ovviamente. E ciò
è pura manna perché Las letras è un’opera
che procede per stati percettivi, vibrazioni, onde invisibili: se c’è
un cinema che è libero dai chiodi della narrazione allora è
quello di Chavarría Gutiérrez, e il sottoscritto non se
la sente nemmeno di parlare di astrazione e men che meno di realismo, è
un’altra dimensione quella in cui veniamo trasportati, forse
un’ibridazione delle due istanze, forse, semplicemente, non lo so,
e ne sono immensamente contento perché dall’ignoranza, da
un’incapacità di esprimere a parole quanto visto, nasce la
certezza che questo tipo di cinema esiste e lotta, per se stesso, per
gli indifesi come Patishtán, per noi, e per me, che da
spettatore qualunque, conficcato nell’arida terra della vita acre,
potrò dire, parafrasando Neruda, “confesso che ho sentito”.
L’autore di Alexfilm
(2015), altro lavoro che esige tassativamente una visione, sa usare
la camera come una siringa, ci sono dei piccoli shock dentro Las
letras, quadri sensoriali cavi, pozzi vertiginosi che una volta
guardati invadono e accendono; non si tratta, ovviamente, di una
rappresentazione classica perché la forza di Gutiérrez
è anche quella di una ricerca visivo-sonora insaziabile,
vediamo le cose in modo nuovo con lui, e di questo non possiamo fare
altro che rendergli un grazie titanico. È un film sulle
persone Las letras (quanta vastità c’è dentro
una carrellata di primi piani?), lo è come altri, ma senza
essere uguale a nessuno, ed è anche un film che si congiunge
alla natura, anche qui non è il primo a farlo, e nuovamente,
per il suo vagare pressoché animalesco (lo strumento fatto
viaggiare a pochi centimetri dalla boscaglia, una bestia col muso
radente al terreno che fiuta qualcosa, o un insetto che svolazza tra
gli arbusti ebbro di nettare), lo è in un modo che non ha
precedenti. Uomo e natura, vita e morte, prigione e libertà, i
tag che classificano l’opera sembrano convogliarsi nel lungo piano
sequenza conclusivo dove un gruppo di ragazzini, il cui girovagare mi
ha ricordato quello di Pude ver un puma (2011), dopo un’ascesa
più mentale che fisica, dissotterrano il feticcio luciferino,
un plausibile emblema del male, dopodiché il mondo cambia: si
capovolge, l’ordine è sovvertito, la rivoluzione è
attuata, l’uomo è libero e può guardare il cielo
sopra di lui.
Grazie a Francesco “poor
Yorick” Cazzin, una persona che ha fatto e sta facendo conoscere
all’Italia un cinema di cui non sapevamo nemmeno l’esistenza.