Non è per niente facile parlare dell’ultimo film di Tsai Ming-liang (ma lo è mai stato in generale?) poiché esso oscilla ambiguamente, pur restando come al solito pressoché immobile, fra tante cose.
C’è in primis un’insistente ripresa del passato che va oltre la semplice rivisitazione per divenire attualizzazione: Jean Pierre Léaud è l’insofferente fantasma di un cinema che fu, scontroso, nostalgico, della sua corsa sulla spiaggia ne
I quattrocento colpi (1959) rimangono solo dei rapidi fotogrammi. Indolente nei confronti del film su Salomè di Hsiao-Kang, ama (forse) la sempre indaffarata produttrice Fanny Ardant. Il passato (ri)diventa presente: la Ardant fu la donna di Truffaut, e Léaud, come ben saprete, divenne il suo alter ego in molti film.
Tsai aggiunge così un’altra declinazione al lemma
cinema. Per fare due esempi: in
Che ora è laggiù? (2001), film che per forza di cose è profondamente legato a questo, la settima arte è un ponte che collega in qualche modo l’esistenza di due persone; in
Goodbye, Dragon Inn (2003) la platea deserta diviene metafora della vita e della morte cosiccome la morte e la vita assurgono a riflessione sul cinema.
Con
Face (2009) il cinema diventa luogo di memoria, e ciò che ricorda è nient’altro che se stesso.
Face è un museo (d’altronde è stato girato negli anfratti del Louvre), un elogio/a del ricordo. Ed essendo dunque un museo la voglia di percorrerlo, di gustarlo, ossia di viverlo, è direttamente proporzionale alla conoscenza che si ha dell’argomento. Se poco sapete della Nouvelle Vague, o più semplicemente poco vi interessa di questo movimento, nel visitare questo museo potreste non cogliere la totalità del suo senso, e questa è una barriera da non sottovalutare.
Ma Tsai? Tutto il suo affascinante universo dov’è? All’incirca c’è, tuttavia allontanandosi per la prima volta da una metropoli (ok ok la scena si svolge a Parigi ma la storia è decisamente asettica) è difficile rintracciare nell’opera quei sentimenti che si levano ogni qual volta si assiste alle spietate trovate del regista. Inoltre
Visage si complica perché al suo interno ci sono riferimenti che vanno al di là della sfera filmica tsaiana per entrare in quella personale dell’autore. Difatti per la prima volta Lee Kang-sheng veste i panni di un regista cinematografico, e qui già si avverte di come la vicenda tocchi potenzialmente l’autobiografia, in più la madre di Hsiao muore durante le riprese al Louvre e questo riporta alla realtà poiché Ming-liang ha perso realmente la mamma durante la scrittura del film, e infine nel campo lunghissimo che chiude la pellicola pare essere proprio lui a suggerire di come prendere il cervo fuggitivo a Hsiao, senza dimenticare che ad un certo punto vediamo su un muro l’ombra della macchina da presa, un’impronta quanto mai tangibile.
Paradossalmente, però, quello che sulla carta potrebbe essere il film più intimo di Tsai, nei fatti si presenta come uno dei meno incisivi data la sua tendenza a dissolversi in vari piani di lettura senza riuscire a centrarne l’obiettivo, qualunque esso fosse.
Allora è doveroso concentrarsi sul tema posto al centro dell’attenzione fin dal titolo: il volto.
Dice Tsai che: “Tutto è illusorio, così come il cinema, ma il volto delle illusioni esiste e deve essere conservato”. Si può concordare; il cinema è anche un’illusione che ha per protagonisti delle facce che non sono altro che delle maschere. L’attore impersona sempre qualcun altro in un gioco di sostituzioni. In Face ciò emerge qua e là senza suscitare troppo interesse. Vediamo Hsiao sdraiato nel letto udire sua madre battere la carne in cucina, successivamente le parti si invertiranno. Nel set imbiancato dalla neve artificiale (tutta l’acqua se n’è andata con l’iniziale esplosione del rubinetto) affiora il concetto della maschera implementato dalla presenza degli specchi che raddoppiano gli attori o forse li mettono a nudo, li smascherano, e la Casta pare soffrirne parecchio perché ricopre le superfici riflettenti con del nastro adesivo nero. Alla fine la chiosa giusta sembra suggerirla lo scorbutico Lèaud, che durante un’indimenticabile rievocazione di storici registi dove due persone che non riescono a comunicare trovano l’intesa grazie al cinema, indica un uccellino come l’unico superstite della scena, lui sarà solo alla fine perché non indossa nessuna maschera, perché non ha un’
altra faccia.
Poi sì,
Face verrà ricordato per le sue sfarzose scenografie che aggiungono una medaglia alla bacheca del regista. Laetitia Casta è un concentrato di sensualità come mai si era visto nella filmografia dell’autore, ed è protagonista dell’immagine più bella: un incontro al buio illuminato da un accendino, riproposizione della scena capolavoro de
Il fiume (1997). Tuttavia l’aria solenne che circonda l’attrice unita ad una mancanza di ironia, e ricordo che i film di questo regista sono spesso imbevuti di tragica ironia, la rendono poco empatizzante nonché protagonista di un ruolo offuscato, leggermente opaco come il film nella sua sostanza è.
EDIT SUCCESSIVO
A distanza di un mese e mezzo dalla visione del film, con una conseguente e naturale macerazione dentro me di un’opera sicuramente importante, e in seguito alla lettura di alcune interviste fatte al regista unite a piccoli stralci di un documentario dedicato a
Visage, se dovessi scrivere in questo momento un nuovo commento sarebbe sicuramente più positivo.
Ça va sans dire, parlare di cinema, e soprattutto del cinema tsaiano, obbliga ad un’analisi che è come un’investigazione. E io nei panni di Sherlock Holmes a volte sono piuttosto impacciato.