La vita in un fatiscente appartamento prismatico. Cinque persone, cinque esseri umani soffocati dalle mura di questa casa buia. Mobili pesanti e ombre. Sotterfugi e tradimenti. Speranze di amori e amori senza speranza. Cinque persone: Hédi la padrona di casa, János il figlio, Anna l’infermiera, Tibor un insegnante squattrinato, e Miklós, l’uomo di Anna. Cinque vite che tentano di essere tali.
L’aspetto quasi rivoluzionario che colpirà anche lo spettatore meno attento, è la portentosa varietà di immagini, inquadrature e luci proposte da Tarr. Il salto in avanti rispetto al suo precedente lavoro The Prefab People (1982, ma si potrebbe tranquillamente erigere ad esempio ognuno dei suoi film passati), è notevole, in particolare per tutto ciò che riguarda la fotografia.
A prima vista la mano che dirige questo Öszi almanach potrebbe sembrare un’altra in confronto alle altre pellicole tarriane antecedenti al 1985. Potrebbe. Nella sostanza il regista riprende ancora una volta da vicino (o meglio da vicinissimo) le miserie esistenziali di donne e uomini in conflitto coi loro simili e con se stessi. Ma la novità più consistente è dovuta al fatto che i vari protagonisti invece di venir raccontati con taglio documentaristico nella concreta realtà quotidiana, in Almanac of Fall accade l'inverso poiché vengono calati in un’atmosfera totalmente astratta, surreale, immaginifica.
Il grosso appartamento è illuminato magistralmente da luci fluorescenti che spezzano la monotonia del buio esaltando i lineamenti degli attori. Fate attenzione ai loro visi durante i dialoghi: Tarr dosa i colori in modo da amplificare il mood dei suoi interpreti. Affascinante.
In alcuni film si dice esagerando che la mdp di un regista è come un occhio indiscreto che spia, in questo caso è proprio così. Tarr è ovunque: dietro, davanti, sopra e sotto (ma proprio sotto) i protagonisti. Tuttavia non è mai invadente o chiassoso, si limita a guardare di sbieco da dietro una porta oppure a filmare il riflesso di uno specchio. Scivola fra gli innumerevoli soprammobili, sembra far parte del buio per soffermarsi soltanto nei volti espressivamente dipinti dalle luci. Qui lo dico e qui lo nego: è uno dei film stilisticamente più raffinati che abbia mai visto.
Però, c’è un però. Il lato oscuro di quest’opera si costituisce nella verbosità tipica del primo Tarr. Dialoghi/monologhi lunghissimi e a volte poco frizzanti non catturano l’attenzione di chi guarda. La mancanza di uno stacco, di un altro spazio che non sia quello della casa, trasmette sì la sensazione di claustrofobia ma al contempo è difficile non fermarsi per orientare un attimo la ragione nel fiume impetuoso di parole riversate sullo schermo. Poi vabbè, se siete ungheresi o comunque conoscete molto bene l’inglese il problema non si pone più di tanto. Ma se come me non sapete nemmeno dove si trovi esattamente l’Ungheria, e la lingua dei Beatles la masticate in maniera canino peniforme, sappiate che questo è un film prima di tutto parlato, e solo in seguito fa ricorso alle immagini, anche se ovviamente le due cose sono correlate. Però, CHE immagini! È il caso di dirlo: bisogna veder(l)e.
L’aspetto quasi rivoluzionario che colpirà anche lo spettatore meno attento, è la portentosa varietà di immagini, inquadrature e luci proposte da Tarr. Il salto in avanti rispetto al suo precedente lavoro The Prefab People (1982, ma si potrebbe tranquillamente erigere ad esempio ognuno dei suoi film passati), è notevole, in particolare per tutto ciò che riguarda la fotografia.
A prima vista la mano che dirige questo Öszi almanach potrebbe sembrare un’altra in confronto alle altre pellicole tarriane antecedenti al 1985. Potrebbe. Nella sostanza il regista riprende ancora una volta da vicino (o meglio da vicinissimo) le miserie esistenziali di donne e uomini in conflitto coi loro simili e con se stessi. Ma la novità più consistente è dovuta al fatto che i vari protagonisti invece di venir raccontati con taglio documentaristico nella concreta realtà quotidiana, in Almanac of Fall accade l'inverso poiché vengono calati in un’atmosfera totalmente astratta, surreale, immaginifica.
Il grosso appartamento è illuminato magistralmente da luci fluorescenti che spezzano la monotonia del buio esaltando i lineamenti degli attori. Fate attenzione ai loro visi durante i dialoghi: Tarr dosa i colori in modo da amplificare il mood dei suoi interpreti. Affascinante.
In alcuni film si dice esagerando che la mdp di un regista è come un occhio indiscreto che spia, in questo caso è proprio così. Tarr è ovunque: dietro, davanti, sopra e sotto (ma proprio sotto) i protagonisti. Tuttavia non è mai invadente o chiassoso, si limita a guardare di sbieco da dietro una porta oppure a filmare il riflesso di uno specchio. Scivola fra gli innumerevoli soprammobili, sembra far parte del buio per soffermarsi soltanto nei volti espressivamente dipinti dalle luci. Qui lo dico e qui lo nego: è uno dei film stilisticamente più raffinati che abbia mai visto.
Però, c’è un però. Il lato oscuro di quest’opera si costituisce nella verbosità tipica del primo Tarr. Dialoghi/monologhi lunghissimi e a volte poco frizzanti non catturano l’attenzione di chi guarda. La mancanza di uno stacco, di un altro spazio che non sia quello della casa, trasmette sì la sensazione di claustrofobia ma al contempo è difficile non fermarsi per orientare un attimo la ragione nel fiume impetuoso di parole riversate sullo schermo. Poi vabbè, se siete ungheresi o comunque conoscete molto bene l’inglese il problema non si pone più di tanto. Ma se come me non sapete nemmeno dove si trovi esattamente l’Ungheria, e la lingua dei Beatles la masticate in maniera canino peniforme, sappiate che questo è un film prima di tutto parlato, e solo in seguito fa ricorso alle immagini, anche se ovviamente le due cose sono correlate. Però, CHE immagini! È il caso di dirlo: bisogna veder(l)e.
vedo che comincia a piacerti..ciao
RispondiElimina... comincia a piacermi sì, l'altro giorno ho visto Damnation. Bello, eppure manca ancora qualcosina per i miei gusti. Poi toccherà a Satantango, ma ci vorrà un po' di tempo.
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