Come e più di I'm a Cyborg, But That's OK (2006) sono in seria difficoltà nell’esternare le mie impressioni sull’ultima fatica di Park Chan-wook. Non sono sicuro se il disorientamento scaturito sia un bene o un male (ma penso un bene), fatto sta che Thirst mi è piaciuto. Almeno credo.
La colpa che attesto all’incolpevole Park è di aver girato nel 2003 un film che ha ridotto il mio tenero cuoricino ad un frullato di tendini e ventricoli, che non so bene cosa siano ma ci stanno bene. Sì: Oldboy, è lui il film incriminato. Mi ha fatto ridere col mondo e piangere da solo, lasciandomi senza parole come se mi avessero tagliato la lingua. E l’organo all’interno della cavità toracica non è riuscito a reggere un tale tourbillon di sensazioni, frantumandosi. Ma il piacere sotteso al dolore superò di brutto l’afflizione diegeticamente scaturitesi facendomi godere come mai prima di quell’occasione. Così, al pari di una vergine toccata per la primissima volta, ho cercato un’altra pellicola che riuscisse ad asfaltarmi nello stesso modo. L’ho cercata dappertutto, restando in Sud Corea o nel vicino Giappone, passando per le fredde terre tedesche e nelle desolate campagne ungheresi, giungendo poi su al nord, in Danimarca. Ma finora niente, non l’ho trovata. Per questo, al solo sentire di un nuovo film di Chan-wook, il mio cuore – ridotto a brandelli dallo stesso, ma si sa di quanto gli innamorati siano masochisti – inizia sempre a picchiettare forte sotto le costole ricordandosi di quanto era stato vivo fino a morire in quell’occasione.
C’è però un ragionamento lapalissiano che ammorba ogni innamorato nostalgico: quello di ricercare nel “nuovo” ciò che gli era piaciuto del “vecchio”, commettendo l’errore madornale di discriminare il “nuovo” solo perché non ha alcune qualità del “vecchio”, bendandosi così in un giudizio cieco che non riconosce altri pregi, o difetti. Come se il finale di Thirst fosse brutto perché non c’è un colpo di scena che ribalta la storia. In verità gli ultimi venti minuti sono un miracolo di tecnica meritevoli di mille applausi, l’importante è che non copriate i vostri occhi.
Ma prima del finale c’è comunque un racconto, e per di più parkiano come è nel suo stile, quindi sciroccato tanto quanto ironico. Inoltre la componente “horror” – dimenticavo: è la vicenda di un prete che diventa vampiro – è una libera interpretazione del tema che non snatura di troppo la figura del vampiro attenendosi ad alcune regole classiche come l’eliofobia, ma che comunque s’inerpica in territori più umani, e automaticamente più spaventosi. Operazione, quella di sondare l’animo umano tramite il mito dei succhiasangue, non troppo originale ma pur sempre utile per stimolare il pensiero.
Ad aggiungere pathos ci si mettono le costrizioni etiche che il ruolo sacerdotale impone. Il povero Sang-hyeon si trova a dover nutrirsi del sangue degli altri prendendone e bevendone da tutti. Il peso della tunica si fa però insopportabile con la rinuncia alla castità, consapevole del rischio di finire per l’eternità nel girone dei lussuriosi decide di correrlo per amore. Grosso errore perché la splendida Tae-joo (interpretata dall’attrice-modella Kim Ok-bin) preferisce la riabilitazione della sua esistenza da cane di casa a vampiro quasi immortale, che l’amore eterno dell’ex prete.
“Io volevo vivere con te per sempre, saremo di nuovo insieme all’inferno allora.”
Nelle parole di Sang-hyeon c’è tutta la disillusione del mondo ed un ri-allacciamento alla propria fede probabilmente mai abbandonata. Devo ancora capire se la ri-conversione dei minuti finali (e quindi l’accettare la morte in quanto giusta punizione per la cattiva condotta), sottolineata dalla ragazza che lo chiama “Padre”, pesi di più sulla bilancia dei pro, praticamente piena, o dei contro, praticamente vuota, in ogni caso l’assenza di redenzione sembra essere una costante nel cinema di Park Chan-wook come ricordato da Lenny Nero (recensione), con tutte le riflessioni da qui fruibili.
Di tutte le sfaccettature non colte ad una singola visione non ne potrò ovviamente parlare, resta la sensazione però, che pur dopo un solo sguardo si sia comunque assistito a qualcosa di grande. Ed anche se il mio cuore non è stato trafitto e ridotto in frantumi, sento che è stato toccato. Eccome.
Due curiosità.
L’abito indossato da Kim Ok-bin in alcune scene del film è simile a quello di Isabelle Adjani in Possession (1981). Infatti il regista koreano ha suggerito alla sua attrice di ispirarsi alla protagonista di Zulawski per il ruolo di Tae-joo. Questa è la locandina originale. C'è qualche differenza, non trovate?
La colpa che attesto all’incolpevole Park è di aver girato nel 2003 un film che ha ridotto il mio tenero cuoricino ad un frullato di tendini e ventricoli, che non so bene cosa siano ma ci stanno bene. Sì: Oldboy, è lui il film incriminato. Mi ha fatto ridere col mondo e piangere da solo, lasciandomi senza parole come se mi avessero tagliato la lingua. E l’organo all’interno della cavità toracica non è riuscito a reggere un tale tourbillon di sensazioni, frantumandosi. Ma il piacere sotteso al dolore superò di brutto l’afflizione diegeticamente scaturitesi facendomi godere come mai prima di quell’occasione. Così, al pari di una vergine toccata per la primissima volta, ho cercato un’altra pellicola che riuscisse ad asfaltarmi nello stesso modo. L’ho cercata dappertutto, restando in Sud Corea o nel vicino Giappone, passando per le fredde terre tedesche e nelle desolate campagne ungheresi, giungendo poi su al nord, in Danimarca. Ma finora niente, non l’ho trovata. Per questo, al solo sentire di un nuovo film di Chan-wook, il mio cuore – ridotto a brandelli dallo stesso, ma si sa di quanto gli innamorati siano masochisti – inizia sempre a picchiettare forte sotto le costole ricordandosi di quanto era stato vivo fino a morire in quell’occasione.
C’è però un ragionamento lapalissiano che ammorba ogni innamorato nostalgico: quello di ricercare nel “nuovo” ciò che gli era piaciuto del “vecchio”, commettendo l’errore madornale di discriminare il “nuovo” solo perché non ha alcune qualità del “vecchio”, bendandosi così in un giudizio cieco che non riconosce altri pregi, o difetti. Come se il finale di Thirst fosse brutto perché non c’è un colpo di scena che ribalta la storia. In verità gli ultimi venti minuti sono un miracolo di tecnica meritevoli di mille applausi, l’importante è che non copriate i vostri occhi.
Ma prima del finale c’è comunque un racconto, e per di più parkiano come è nel suo stile, quindi sciroccato tanto quanto ironico. Inoltre la componente “horror” – dimenticavo: è la vicenda di un prete che diventa vampiro – è una libera interpretazione del tema che non snatura di troppo la figura del vampiro attenendosi ad alcune regole classiche come l’eliofobia, ma che comunque s’inerpica in territori più umani, e automaticamente più spaventosi. Operazione, quella di sondare l’animo umano tramite il mito dei succhiasangue, non troppo originale ma pur sempre utile per stimolare il pensiero.
Ad aggiungere pathos ci si mettono le costrizioni etiche che il ruolo sacerdotale impone. Il povero Sang-hyeon si trova a dover nutrirsi del sangue degli altri prendendone e bevendone da tutti. Il peso della tunica si fa però insopportabile con la rinuncia alla castità, consapevole del rischio di finire per l’eternità nel girone dei lussuriosi decide di correrlo per amore. Grosso errore perché la splendida Tae-joo (interpretata dall’attrice-modella Kim Ok-bin) preferisce la riabilitazione della sua esistenza da cane di casa a vampiro quasi immortale, che l’amore eterno dell’ex prete.
“Io volevo vivere con te per sempre, saremo di nuovo insieme all’inferno allora.”
Nelle parole di Sang-hyeon c’è tutta la disillusione del mondo ed un ri-allacciamento alla propria fede probabilmente mai abbandonata. Devo ancora capire se la ri-conversione dei minuti finali (e quindi l’accettare la morte in quanto giusta punizione per la cattiva condotta), sottolineata dalla ragazza che lo chiama “Padre”, pesi di più sulla bilancia dei pro, praticamente piena, o dei contro, praticamente vuota, in ogni caso l’assenza di redenzione sembra essere una costante nel cinema di Park Chan-wook come ricordato da Lenny Nero (recensione), con tutte le riflessioni da qui fruibili.
Di tutte le sfaccettature non colte ad una singola visione non ne potrò ovviamente parlare, resta la sensazione però, che pur dopo un solo sguardo si sia comunque assistito a qualcosa di grande. Ed anche se il mio cuore non è stato trafitto e ridotto in frantumi, sento che è stato toccato. Eccome.
Due curiosità.
L’abito indossato da Kim Ok-bin in alcune scene del film è simile a quello di Isabelle Adjani in Possession (1981). Infatti il regista koreano ha suggerito alla sua attrice di ispirarsi alla protagonista di Zulawski per il ruolo di Tae-joo. Questa è la locandina originale. C'è qualche differenza, non trovate?
bè..lui è un grande..talento enorme..
RispondiEliminaOld Boy è forse il mio film preferito, mi son ritrovato fino all'ultima lettera nella tua riflessione... effettivamente fa proprio quell'effetto!
RispondiEliminaCiao
Eggià, un giorno dovrei scriverci qualcosa sopra. Temo, però, che quel giorno non sia oggi, e nemmeno domani. Troppo impegantivo.
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