Un ragazzino è appeso per i polsi ad una catena che penzola dal soffitto. La cantina è in disordine, sporca, sembra abbandonata. Il bambino è nudo con evidenti escoriazioni sul corpo. C’è un uomo insieme a lui, lo fotografa, lo sfiora e poi lo uccide. Poco dopo l’uomo si getta giù dal tetto di un palazzo. Il suo nome è Klaus, è un ex nazista e dopo aver tolto la vita a centinaia di bambini in guerra, non è riuscito a levarsi la sua. E potrebbe sembrare una condanna quella di passare il resto dei suoi giorni immobile in un polmone di acciaio, mentre in realtà il vero dazio da pagare si presenta sottoforma di Angelo, finto infermiere che si prenderà “cura” di lui.
Primo lungometraggio di Agustí Villaronga, Tras el cristal (1987) è un film che mette in difficoltà non solo durante la visione, ma anche nel buttare giù queste quattro righe. Inizialmente avevo avuto idea di sottolineare una certa avventatezza nel presentare i personaggi con la precipitosa entrata in scena di Angelo nella casa. Inoltre notavo un taglio visivo da cinema di genere che sinceramente non entusiasmava il mio lato estetico. Poi con il dispiegarsi della trama mi sono dovuto rimangiare le mie osservazioni in un sol boccone perché, primo: Angelo legittima la sua entrata spettrale in scena avendo pedinato Klaus fin dai tempi della violenza subita, e, secondo: la fotografia che dapprima mi era sembrata dozzinale e poco curata, con l’intorbidirsi della situazione si plasma come il vetro (!) soffiato, divenendo un riflesso bluastro che risucchia i protagonisti, e le loro anime.
E poi? E poi c’è tutto un substrato psicologico terrorizzante, ripeto: TERRORIZZANTE, che riguarda l’identificazione della vittima con l’aggressore. La questione è delicata.
Recentemente sono stati girati due film che toccano in qualche modo il tema qui affrontato: Hard Candy (2005) e La ragazza della porta accanto (2007). Quello che li accomuna all’opera di Villaronga è che dietro alle efferatezze proposte ci sono processi psichici meno diretti ma più sconvolgenti delle brutalità stesse. E il fatto che In a Glass Cage anticipi di qualche anno i sopraccitati film non può che giocargli a favore.
L’orrore che disturba di più non è una siringa riempita di benzina piantata nel petto di un bimbo (tra l’altro ripreso in Dettaglio, unico fotogramma fuori posto di tutto il film), ma il fatto che un bimbo come quello violentato in passato, invece di aborrire la violenza, il dolore inflittogli e la disperazione tatuata dentro, se ne appropria. Fa sua la violenza, fa suo il dolore e la disperazione. Ovvio, a leggere direte che un ago infilzato nel gracile petto di un ragazzetto è ben più disturbante dell’interiorizzazione assoluta di modelli disumani. Tuttavia il meccanismo che porta Angelo a riconoscersi nel suo seviziatore Klaus fa rabbrividire perché al di là di quanti litri di sangue e sbudellamenti vari possano essere inscenati in un film, ciò che mette sempre e comunque una paura ancestrale è l’abissalità della mente, l’assenza di luce e l’inevitabile oscuramento della coscienza.
Se non bastasse questa visione nichilista, il regista giustifica il titolo della sua opera calando i protagonisti in una prigione trasparente in cui il male sembra trasmigrare da un corpo all’altro come una malattia. Il finale con la piccola Rena che ringrazia Angelo dopo averle ucciso i genitori sembra confutare questo, il “morbo” partorito durante la guerra è sopravvissuto fortificandosi negli anni successivi per continuare ad assoggettare le sue vittime.
In a Glass Cage viene considerata una delle pellicole più estreme di tutta la storia del cinema. A ragione o a torto questo film ha significati soggiacenti che superano in quanto a “shock” l’exploitation sulla scena, e se nel complesso fosse stato più stilisticamente elegante sarebbe stata un’opera ancora più grande di quel che già è.
Primo lungometraggio di Agustí Villaronga, Tras el cristal (1987) è un film che mette in difficoltà non solo durante la visione, ma anche nel buttare giù queste quattro righe. Inizialmente avevo avuto idea di sottolineare una certa avventatezza nel presentare i personaggi con la precipitosa entrata in scena di Angelo nella casa. Inoltre notavo un taglio visivo da cinema di genere che sinceramente non entusiasmava il mio lato estetico. Poi con il dispiegarsi della trama mi sono dovuto rimangiare le mie osservazioni in un sol boccone perché, primo: Angelo legittima la sua entrata spettrale in scena avendo pedinato Klaus fin dai tempi della violenza subita, e, secondo: la fotografia che dapprima mi era sembrata dozzinale e poco curata, con l’intorbidirsi della situazione si plasma come il vetro (!) soffiato, divenendo un riflesso bluastro che risucchia i protagonisti, e le loro anime.
E poi? E poi c’è tutto un substrato psicologico terrorizzante, ripeto: TERRORIZZANTE, che riguarda l’identificazione della vittima con l’aggressore. La questione è delicata.
Recentemente sono stati girati due film che toccano in qualche modo il tema qui affrontato: Hard Candy (2005) e La ragazza della porta accanto (2007). Quello che li accomuna all’opera di Villaronga è che dietro alle efferatezze proposte ci sono processi psichici meno diretti ma più sconvolgenti delle brutalità stesse. E il fatto che In a Glass Cage anticipi di qualche anno i sopraccitati film non può che giocargli a favore.
L’orrore che disturba di più non è una siringa riempita di benzina piantata nel petto di un bimbo (tra l’altro ripreso in Dettaglio, unico fotogramma fuori posto di tutto il film), ma il fatto che un bimbo come quello violentato in passato, invece di aborrire la violenza, il dolore inflittogli e la disperazione tatuata dentro, se ne appropria. Fa sua la violenza, fa suo il dolore e la disperazione. Ovvio, a leggere direte che un ago infilzato nel gracile petto di un ragazzetto è ben più disturbante dell’interiorizzazione assoluta di modelli disumani. Tuttavia il meccanismo che porta Angelo a riconoscersi nel suo seviziatore Klaus fa rabbrividire perché al di là di quanti litri di sangue e sbudellamenti vari possano essere inscenati in un film, ciò che mette sempre e comunque una paura ancestrale è l’abissalità della mente, l’assenza di luce e l’inevitabile oscuramento della coscienza.
Se non bastasse questa visione nichilista, il regista giustifica il titolo della sua opera calando i protagonisti in una prigione trasparente in cui il male sembra trasmigrare da un corpo all’altro come una malattia. Il finale con la piccola Rena che ringrazia Angelo dopo averle ucciso i genitori sembra confutare questo, il “morbo” partorito durante la guerra è sopravvissuto fortificandosi negli anni successivi per continuare ad assoggettare le sue vittime.
In a Glass Cage viene considerata una delle pellicole più estreme di tutta la storia del cinema. A ragione o a torto questo film ha significati soggiacenti che superano in quanto a “shock” l’exploitation sulla scena, e se nel complesso fosse stato più stilisticamente elegante sarebbe stata un’opera ancora più grande di quel che già è.
babba mia.. mi hai messo i brividi.
RispondiEliminaPenso che sia un film che faccia per me.
ho visto qualche scena su youtube.. ci sto ripensando.
RispondiEliminauna delle pellicole + estreme di sempre?
RispondiEliminaazz. mi devo appuntare questo film, e vederlo in un momento appropriato
Cioè, se prendete una qualche pellicola più recente, anche mainstream, tipo Hostel, ci sarà molto più "sangue" che in questa. Diciamo che In a Glass Cage inscena il male in maniera più sottile, e per questo più devastante.
RispondiEliminail tuo blog fa luce nel buio
RispondiEliminaSì vabbè, vogliamo parlare del vostro? E' uno dei migliori, tirate fuori titoli che manco i registi stessi se li ricordano.
RispondiEliminaGrazie mille per questa segnalazione. Mi hai messo curiosità.
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