Il sesto film di Brillante Mendoza (in soli due anni di attività!) sembra essere l’imbuto verso il quale far confluire la sua idea di cinema portata avanti fino a quel momento (è il 2007). I lavori del filippino nascono sotto il segno del realismo che viene colto attraverso un canale attinente al documentario, e in questo atto di catturare quel vissuto quotidiano radicato nella nazione di appartenenza, emerge una forte denuncia sottotestuale adibita a mostrare la condizione sociale a dir poco drammatica dei suoi compatrioti più poveri. I punti cardinali del cinema mendoziano sono questi, nel mezzo balenano incursioni etniche che immortalano riti religiosi (spesso processioni), e diffusi rimandi alle difficoltà che i filippini omosessuali incontrano nella società.
Sulla carta le tematiche si presentano così, nella pratica si è visto che le cose non sempre – quasi mai – hanno trovato una realizzazione convincente, e le cause, per chi scrive, non vanno rintracciate in un budget esiguo, perché ad esempio The Masseur (2005) pur avendo gli stessi fardelli produttivi che avranno i suoi successori è film degno di essere chiamato tale, piuttosto si palesa un prosciugamento del comparto sceneggiaturiale dove non solo Mendoza ha raccontato cose poco interessanti, ma lo ha fatto ahimè in maniera sghemba, raffazzonata e approssimativa.
Tirador, nel bene e nel male, presenta le qualità e i difetti sopraelencati. L’ambientazione principale, e il modo in cui ci viene proposta, ovvero solo camera a spalla che pedina gli abitanti del quartiere degradato, è praticamente la stessa della prima parte di Foster Child (2007). Al contempo ci sono dei forti richiami alla realtà politica con delle elezioni incombenti che riportano con la mente a Manoro (2006), inframmezzate da parentesi religiose che invece richiamano Kaleldo (2006).
Il potpourri autocitazionistico partorisce un film che rende con sufficiente efficacia il suo messaggio di fondo riguardante lo scollamento tra le istituzioni (la legge, la classe politica) e il popolo (come detto poverissimo), e difatti la pellicola è racchiusa in due estremi, forse gli unici realmente convincenti, che mostrano da una parte una polizia locale decisamente violenta nei confronti dei più deboli, e dall’altra dei politicanti che cercano di accaparrarsi un voto sputacchiando frasi fatte ad un comizio. Il guaio è che il disagio sociale di questa gente viene raccontato da Mendoza in modo veramente sfilacciato, cioè, la tendenza è proprio quella di procedere in avanti attraverso una narrazione episodica senza alcun costrutto. Se l’intento era quello di fare un film corale il risultato ottenuto è esattamente l’opposto; non c’è un’interazione che sia in grado di legittimare i personaggi nello stesso film, manca appeal ai personaggi stessi, non è pervenuto un solido intreccio tramico, ci sono solo segmenti indipendenti in cui accadono eventi che onestamente non intrigano perché non si ha il tempo di entrare in contatto con nessuna delle figure sullo schermo. Un paio di passaggi ravvivano l’attenzione (tipo il furto del portatile o lo smarrimento della dentiera), mentre tutti gli altri faticano terribilmente ad essere visti.
Se in soli due anni Mendoza ha girato 6 film è logico che in prima battuta sia stata la qualità a risentirne, probabilmente si è trattata di una fase di rodaggio e tutto quello che si può volere, ma la convinzione dopo aver visionato questa acerba fase artistica è che il buon cinema navighi al largo di tali coste.