Luciano Funetta
2018
Chiarelettere; 165 p.
ATTENZIONE.
SI STA ABBANDONANDO IL SENTIERO SICURO.
PROSEGUIRE
COMUNQUE?
SÌ - NO
È
doveroso spendere più di qualche parola per Il
grido
perché al suo interno si intralegge qualcosa che nessun recensore,
nemmeno il più acuto, riuscirà mai a decifrare, è, per quel che il
sottoscritto ha potuto captare sfogliando il primo volume della
collana “Altrove” di Chiarelettere, un sentimento autunnale, una
decadenza grondante meschinità e angoscia ma anche, attraverso
prospettive sotterranee e completamente mimetizzate nei toni cupi che
avvolgono la storia, un refolo di nostalgia, di nicchie e residui di
umanità la cui luce trema flebile tra le volute dell’oscurità.
Non male per uno scrittore giunto all’opera seconda che aveva
esordito poco tempo fa con Dalle
rovine (2015),
il libro pubblicato da Tunué
era sì interessante ma non manteneva a mio avviso una tensione
costante nella sua interezza, e per tensione
mi riferisco alla mera capacità che un testo ha di collegare gli
elementi che lo compongono e da questo punto di vista Il
grido possiede
indubbiamente una conformazione narrativa più solida poiché
adagiata su tre percorsi (due nel passato [la Casa delle Dame, l’Orto
Botanico] e uno nel presente) pronti potenzialmente ad intersecarsi
l’uno nell’altro (sebbene ciò non accada mai del tutto) e a far
vibrare la lettura rischiarata dai fuochi fatui delle attese. Ma non
vorrei farne una questione di “trama”,
di eventi, di quanto accade e quanto no, la bravura di Funetta, che
già si scorgeva nel debutto, sta nel saper dare consistenza ad un
mondo di cenere e fuliggine per mezzo di uno stile che flirta con il
surreale (ma un surreale stinto, decommedizzato) senza mai eccedere.
È diretto e preciso: dentro un sacchetto della spazzatura posato per
terra qualcuno o qualcosa si muove. Basta, non c’è bisogno di dare
altre informazioni.
In
una intervista all’autore che avevo letto in passato e che ora non
trovo più, Funetta diceva che, oltre ad Antoine Volodine, anche
László Krasznahorkai era un punto di riferimento per la propria
scrittura, e in effetti nel Grido l’apertura
con le anime perdute del bar Kraken ricorda alla lontana il
leggendario prologo de Le armonie di Werckmeister
(2000), attenzione: del film, non del libro originario Melancolia
della resistenza (Zandonai,
2013) che è costituito da un’introduzione non presente nella
pellicola di Tarr [1], ed anche il lungo girovagare di Lena (Morse:
il destino nel cognome, essere un possibile codice di comprensione,
diventare i nostri occhi in una buia realtà) che si snoda tra ciò
che è stato e ciò che è assomiglia, sempre mantenendo una certa
distanza, alle lande disastrate dell’appena citato Volodine. Non
c’è derivazione comunque, più che altro viene da chiedersi il
perché delle letterature così liminari stiano smuovendo gli
scaffali delle librerie nostrane, perché si tratta di penne
sopraffine è una risposta troppo ovvia, diciamo che gli addetti ai
lavori avranno di che ragionare in futuro sulle possibili concrete
motivazioni, nel frattempo godiamo con piacere i semi impiantati
nell’immaginazione di un trentenne che è facile, nonché un filo
poetico, immaginare chino sulla tastiera illuminato dalla luce
azzurrognola del foglio Word mentre riversa chilometri e chilometri
di parole lette altrove e filtrate dal suo sentire.
Quello
che ne è uscito è un romanzo al di là dell’etichetta, non privo
di imperfezioni (i dialoghi, non di Funetta, per carità, ma i
dialoghi in generale li abolirei, sempre troppo impacciati ed
estranei al flusso del racconto), eppure vivo, anche se un po’
morto, anzi risorto in ognuna delle strade che percorre le quali si
tramutano per noi in finestre con pae(/s)saggio nel mistero, non so
se religioso, umano o quel che è, sicuramente un interrogativo
ubiquo che cavalca la carta del libro, se ne impossessa, la penetra,
la violenta, in assoluto silenzio. Questo mistero, questo Grido, che
tallona la protagonista fin da piccola è un’entità che Funetta si
guarda bene dal descrivere in modo chiaro perché la letteralità,
che lo si sappia, va bene al massimo per i poppanti, ed anche nel
finale apocalittico, davvero bello perché lì avviene un fortemente auspicato sversamento dimensionale,
l’incombente massa nera assassina rimane fuori campo, dopo
centosessantaquattro
pagine/notti/trip/Malthus/scopate/febbri/minestre/● Lena può
trovare forse un po’ di pace.
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[1]
C’è un altro libro italiano edito di recente che ha nel cinema del
cineasta ungherese una fonte di ispirazione, è I
vivi e i morti (minimum
fax, 2018) di Andrea Gentile.