giovedì 3 maggio 2018

Il prigioniero coreano

Non è la prima volta che Kim Ki-duk si occupa delle persistenti tensioni tra le due Coree, i più ricorderanno infatti The Coast Guard (2002) e la sua storia di difficili confini, e sempre i più sapranno che in questi quattordici anni per il regista molte cose sono cambiate (non si può dire lo stesso a livello politico anche se ci sono state importanti distensioni), una crisi personale, il silenzio, il ritorno, ecc. L’abbiamo ripetuto fino alla nausea che il Kim post-Arirang (2011) non ha pressoché niente del passato, la svolta realista ha esacerbato i toni della violenza svuotando di brutto l’impulso poetico e anche Geumul (2016) non si discosta da tale tendenza. Prima di dire se il film presentato a Venezia ’16 sia brutto o meno (potete all’incirca immaginarlo dato il recente pregresso...), segnalo un po’ sbalordito un aspetto che già avevo rimarcato per One on One (2014), l’impressione generale è che anche qui manchi della professionalità, non so se Kim abbia bisogno di un direttore della fotografia con gli attributi o se non riesca a trovare angolazioni e traiettorie intriganti, fatto è che tutta la parte ambientata a Seul negli uffici governativi sfiora l’imbarazzo, la sciatteria con cui sono allestiti gli interni dell’edificio e le interazioni tra gli uomini dello stato meridionale sono di un artefatto e di un impostato che si sfiora la parodia, è veramente troppo ingessato il cinema di Kim degli ultimi anni, e sebbene vengano disseminate qua e là brutalità non esattamente all’acqua di rose (cfr. l’evirazione di Moebius, 2013) non c’è risultato pregno, è urlo e non sussurro, è stradetto e non non detto. Ovvietà, sono d’accordo, ma è difficile soprassedere di fronte a proposte talmente mal fatte da sfiduciare chiunque ritenga che la settima arte meriti ben di più da molti dei suoi esponenti, compreso Kim.

Il tasso di bruttezza del Prigioniero coreano ha perciò indubitabilmente un picco negativo sul piano estetico, ma anche su quello narrativo non c’è di che esultare perché l’idea di Ki-duk è quella di sottolineare che in fondo il Paese è bello che unito, sì, dalla paranoia militare e da due sistemi politico-sociali antitetici che lasciano però dietro di sé parecchie ombre (a tal proposito è da ricordare la frase in cui si dice che dove c’è tanta luce c’è anche parecchia ombra). Il confronto parrebbe leggermente impari, del resto parliamo pur sempre di una dittatura a cui viene al massimo contrapposto l’episodio della prostituta per battere il tasto sul consumismo, la merceficazione e via dicendo, ma comunque lo accettiamo così come accettiamo (a fatica) la struttura gemella dell’opera che ci serve sul piatto il senso del film: sia su che giù l’umanità è asfaltata dalla cultura del sospetto e un banale incidente (la sonnacchiosa metafora: il pescatore... pescato) stravolge la vita di un innocente. Non esiste comprensione (a parte il giovane agente sudcoreano, figura alquanto posticcia), solo pressione sul singolo per costruire una verità di comodo. Kafka continua ad essere una fonte inesauribile (forse perché era lui ad averci visto lungo?), anche se, e non è che ciò stupisca troppo, le modalità con cui Kim illustra l’intera faccenda convincono meno di zero.

Non si sa più che dire ad un regista che un tempo ci illuminava gli occhi e che oggi ci obbliga a posarli altrove, il punto è che, almeno per chi scrive, permane una sensazione di... come dire, di “sincerità” da parte sua, cioè lui ci crede per davvero (beh, gliel’hanno fatto credere: il Leone a Pietà, 2012) e, visti i ritmi produttivi sui quali si è nuovamente assestato, continuerà a crederci anche in futuro, quello che gli possiamo consigliare e di lavorare maggiormente sulla resa visiva (strumenti più performanti, collaboratori più skillati) e di affinare la scrittura, non un ritorno all’onirico ma perlomeno un accenno ad una sua possibilità, e se invece la strada del reale è la strada voluta che ci sia meno rigidità nella costruzione, altrimenti, in caso contrario, l’unico prigioniero continuerà ad essere Kim stesso, prigioniero del suo cinema divenuto tristemente mediocre.

Ah: ma davvero la gente può suicidarsi mordendosi la lingua??

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