Scorrendo sul filo (spinato?) che si srotola lungo la prolifica carriera di Kim Ki-duk, The coast guard può essere inteso come la prosecuzione naturale del meraviglioso Address Unknown (2001): stessa rabbia incrementata da una disperazione folle. Come osservando in controluce il negativo di un rullino, ecco che dopo l’urlo disperato, ma, ahimè, muto, l’uomo distrutto percorre un sentiero di fucili e nuvole basse, senza più un filo di voce, ma con lo sguardo perso.
La trama è presto detta: in uno spicchio di costa fra le due coree una base militare sorveglia notte e giorno il confine per cacciare delle fantomatiche spie. Una notte il soldato Kang avvista dei movimenti sulla spiaggia, senza pensarci troppo compie il suo dovere: imbraccia il fucile e trivella di colpi un uomo per poi smembrarlo del tutto con una granata. Ma l’uomo ucciso non era una spia, bensì un semplice ragazzo che si era appartato fra gli scogli con la sua fidanzata. La ragazza devastata psichicamente dalla sua morte impazzisce, e insieme a lei anche il carnefice, Kang, che crolla in un limbo di follia divenendo un pericolo per il resto dei militari da cui era stato allontanato per i suoi squilibri.
Questo è l’ultimo film del “primo” Kim Ki-duk (suddivisione di cui mi prendo ogni responsabilità). Con il successivo Primavera… (2003) abbandonerà gli aspetti più crudi dei suoi esordi che avevano dato vita a opere dalle tinte forti, per acquisire un’angolazione lirica, onirica, estetica. Ma anche in queste opere più sfumate sono rintracciabili schegge di crudeltà assoluta (la mazza da golf di Ferro 3 (2004), o il suicidio della ragazza ne La samaritana, 2004), e così come in quelle precedenti a The coast guard è possibile scorgere frammenti di poesia illuminante (la scena conclusiva di Crocodile, 1996, o la nevicata di Birdcage Inn, 1998). Kim ha portato avanti un discorso cinematografico senza mai snaturarsi, sperimentando anche (Real Fiction, 2000), ma non perdendo mai di vista i topoi che hanno caratterizzato da sempre i suoi lavori.
L’acqua è un elemento sempre presente, un marchio di fabbrica inconfondibile. Ma se ne L'isola (2000) aveva la capacità di far “rinascere” i protagonisti che galleggiavano in una specie di liquido amniotico, qui l’acqua non arriva che alle caviglie dei soldati o alle ginocchia della fidanzata impazzita. Pozzanghere poco profonde che non riescono a placare la follia, o a tranciare di netto il passato come in Bad Guy (2001) dove la prostituta vede il fantasma della brava ragazza che era svanita nel mare. In The Coast Guard l’acqua riesce soltanto ad accogliere il sangue di un aborto, ingabbiando la madre mancata in una vasca piena di pesci destinati a finire su una padella. Forse la donna e quei pesci hanno un destino in comune.
Ritorna la follia (altro segno ricorrente) che diviene rabbia cieca e forse neanche troppo immotivata. Come sottolinea uno dei militari, il soldato Kang, primo soldato del battaglione, è stato alienato dalla vita nella base fatta di giorni e notti tutti uguali. L’omicidio del ragazzo ha spezzato la routine e sbriciolato la vita del soldato. Vita che, senza un uniforme addosso, non avrebbe avuto più senso. Notevole l'idea di sfumare il viso del soldato durante i suoi attacchi, incarna alla perfezione la paura dei militari verso un nemico che non ha un volto preciso.
Il film ha però alcune imprecisioni. In tutti i lavori del “primo” Kim c’è un certo compiacimento nell’immortalare reiterate volte scene di pestaggi con pugni e calci che si ripetono più e più volte appesantendo la visione, difetto principe, questo, di Wild Animals (1996). Oltre ad insistere su schiaffi e spintoni, a rendere più stucchevole la narrazione vi sono i continui tentativi di penetrare nella base da parte del militare impazzito. Un palese vuoto nella sceneggiatura.
Finale amarissimo.
La trama è presto detta: in uno spicchio di costa fra le due coree una base militare sorveglia notte e giorno il confine per cacciare delle fantomatiche spie. Una notte il soldato Kang avvista dei movimenti sulla spiaggia, senza pensarci troppo compie il suo dovere: imbraccia il fucile e trivella di colpi un uomo per poi smembrarlo del tutto con una granata. Ma l’uomo ucciso non era una spia, bensì un semplice ragazzo che si era appartato fra gli scogli con la sua fidanzata. La ragazza devastata psichicamente dalla sua morte impazzisce, e insieme a lei anche il carnefice, Kang, che crolla in un limbo di follia divenendo un pericolo per il resto dei militari da cui era stato allontanato per i suoi squilibri.
Questo è l’ultimo film del “primo” Kim Ki-duk (suddivisione di cui mi prendo ogni responsabilità). Con il successivo Primavera… (2003) abbandonerà gli aspetti più crudi dei suoi esordi che avevano dato vita a opere dalle tinte forti, per acquisire un’angolazione lirica, onirica, estetica. Ma anche in queste opere più sfumate sono rintracciabili schegge di crudeltà assoluta (la mazza da golf di Ferro 3 (2004), o il suicidio della ragazza ne La samaritana, 2004), e così come in quelle precedenti a The coast guard è possibile scorgere frammenti di poesia illuminante (la scena conclusiva di Crocodile, 1996, o la nevicata di Birdcage Inn, 1998). Kim ha portato avanti un discorso cinematografico senza mai snaturarsi, sperimentando anche (Real Fiction, 2000), ma non perdendo mai di vista i topoi che hanno caratterizzato da sempre i suoi lavori.
L’acqua è un elemento sempre presente, un marchio di fabbrica inconfondibile. Ma se ne L'isola (2000) aveva la capacità di far “rinascere” i protagonisti che galleggiavano in una specie di liquido amniotico, qui l’acqua non arriva che alle caviglie dei soldati o alle ginocchia della fidanzata impazzita. Pozzanghere poco profonde che non riescono a placare la follia, o a tranciare di netto il passato come in Bad Guy (2001) dove la prostituta vede il fantasma della brava ragazza che era svanita nel mare. In The Coast Guard l’acqua riesce soltanto ad accogliere il sangue di un aborto, ingabbiando la madre mancata in una vasca piena di pesci destinati a finire su una padella. Forse la donna e quei pesci hanno un destino in comune.
Ritorna la follia (altro segno ricorrente) che diviene rabbia cieca e forse neanche troppo immotivata. Come sottolinea uno dei militari, il soldato Kang, primo soldato del battaglione, è stato alienato dalla vita nella base fatta di giorni e notti tutti uguali. L’omicidio del ragazzo ha spezzato la routine e sbriciolato la vita del soldato. Vita che, senza un uniforme addosso, non avrebbe avuto più senso. Notevole l'idea di sfumare il viso del soldato durante i suoi attacchi, incarna alla perfezione la paura dei militari verso un nemico che non ha un volto preciso.
Il film ha però alcune imprecisioni. In tutti i lavori del “primo” Kim c’è un certo compiacimento nell’immortalare reiterate volte scene di pestaggi con pugni e calci che si ripetono più e più volte appesantendo la visione, difetto principe, questo, di Wild Animals (1996). Oltre ad insistere su schiaffi e spintoni, a rendere più stucchevole la narrazione vi sono i continui tentativi di penetrare nella base da parte del militare impazzito. Un palese vuoto nella sceneggiatura.
Finale amarissimo.
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